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Gianni Santucci per il “Corriere della Sera”
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Il 25 luglio 2018 due poliziotti s' avvicinano a I. H., 35 anni, bosniaca, borseggiatrice. Banchina della metropolitana di Milano. La donna dice subito: «Ho una condanna». Poi apre la borsa e tira fuori un certificato. È incinta. Quarto mese. Mostra il foglio come un «lasciapassare». Negli uffici di polizia, dai terminali, emerge l'«ordine di carcerazione»: significa che qualsiasi poliziotto o carabiniere la fermi, in qualsiasi città d' Italia, deve portarla in carcere. In decine di processi, ha accumulato pene per 14 anni, 11 mesi e 17 giorni.
Condanna «da eseguire»: ma anche in quel pomeriggio dell' anno scorso viene «rimandata». Era già successo a maggio 2016. E anche a gennaio 2015. Una cronologia di «decreti di differimento della pena», e dunque di gravidanze che si ripetono, che apre due crepe nel sistema della sicurezza e della giustizia. Il fascicolo di I. H. è in carico ai carabinieri di Milano, sezione che si occupa della ricerca di «latitanti».
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Perché dal 24 febbraio 2014, da quando cioè sono state riunite nel «cumulo» tutte le condanne che ha ricevuto e non ha mai scontato, di fatto è «ricercata». Il 12 gennaio 2015 viene arrestata per un borseggio. Dovrebbe scontare anche tutto l' arretrato (il «fine pena», in quel momento, arriva al 2029), ma è incinta: e il 13 gennaio viene scarcerata. Un nuovo arresto risale al 20 maggio 2016 (il «fine pena», a quel punto, è slittato al 2031): ma è ancora in gravidanza, e torna libera. La sequenza si ripete identica anche a fine luglio 2018.
L'INCHIESTA DEL 'CORRIERE DELLA SERA' SULLE BABY ROM
Alla base c' è l' articolo 146 del codice penale, che sospende le pene per le donne incinte o madri di figli fino a un anno. Ma esistono decine di ragazze rom (con i loro sfruttatori) che soprattutto tra Milano, Roma, Venezia e Firenze applicano una distorsione sistematica e drammatica di quel principio di umanità della giustizia. E pongono due interrogativi.
Perché la gravidanza non è «compatibile» con il carcere (almeno nelle sue forme attenuate), se invece è «compatibile» con le giornate passate a rubare in strada o nella calca di una metropolitana? Questa è una delle ragioni che spiegano ai tanti cittadini milanesi perché ogni giorno, nel «triangolo nero» delle fermate del metrò «Duomo»/«Lanza»/«Centrale», vedono sempre gli stessi gruppi di ragazze che s' avventano per lo più su turisti arabi, asiatici o russi, che per abitudine girano con migliaia di euro nel portafogli.
Nonostante il lavoro tenace della Polmetro, della Polfer e dell' Unità reati predatori della Polizia locale, i furti avvengono a ritmo continuo. «L' ultimo periodo di Natale è stato un disastro», ripetono un paio di investigatori. Ma c' è un secondo e più generale interrogativo: può uno Stato permettere che le gravidanze e le nascite dei bambini siano strumentalizzate in forma così organizzata in un sistema di sfruttamento criminale?
Tanto è ripetitivo il meccanismo, che a dicembre 2016 la Procura di Milano ha diramato una circolare che chiede direttamente a polizia e carabinieri di «sospendere l' esecuzione» di condanne definitive in caso di donne incinte o madri di figli con meno di un anno, saltando di fatto i passaggi tra carcere e Procura, a cui vanno comunque trasmessi gli atti: ma nel frattempo «il condannato verrà lasciato in stato di libertà».
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La circolare snellisce procedure che hanno un esito scontato, ma ha creato anche una singolare disparità: perché tra tutte le borseggiatrici rom che ogni giorno rubano in centro a Milano, quelle con un ordine di carcerazione di questa città restano direttamente libere; quelle ricercate invece dalle Procure di Roma, Venezia o del resto d' Italia finiscono in carcere (anche se molto probabilmente ne usciranno qualche giorno dopo).
Tra le circa 30 «latitanti» intercettate a Milano dalle diverse forze dell' ordine nel 2018, 8 donne su 10 erano incinte, e meno della metà delle «carcerazioni» sono state eseguite. Tutte le altre donne hanno continuato a rubare. La stampante butta fuori fogli su fogli, a ripetizione: alla fine saranno una trentina. Sistemati e rilegati, elencano la storia criminale di A. S., 34 anni, bosniaca, borseggiatrice, arrestata il 27 settembre 2018 dai poliziotti della stazione Centrale di Milano mentre stava infilando le mani nella borsa di una turista.
BABY LADRE ROM IN AZIONE NELLA METRO DI ROMA
Quel giorno A. S. segue tranquilla gli agenti in ufficio. Non si preoccupa: perché sa che, anche stavolta, l' arresto sarà per lei poco più che un fastidio. Ore di noia in attesa di sbrigare gli atti e «passare» in Tribunale per la direttissima. Lo deduce per esperienza. Perché il suo curriculum di precedenti annovera 27 arresti per furto, tentato furto, ricettazione, una rapina; più 5 denunce «in stato di libertà» per gli stessi reati. Da minorenne è stata fermata una dozzina di volte tra Pisa, Firenze e Roma. Altri 12 arresti sono avvenuti dopo il suo definitivo trasferimento a Milano, nel 2011.
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E solo una volta è entrata in carcere, a Roma. Era l' ottobre 2007. Ci è rimasta meno di 4 mesi.
Perché a febbraio 2008 è stata di nuovo arrestata. E per quattro volte poliziotti e carabinieri l' hanno fermata e le hanno presentato un «ordine di carcerazione» per un cumulo di condanne definitive, tutte passate in Cassazione. Anche quell' ordine non è stato ancora eseguito. Perché A.S. era sempre incinta.
Il 26 maggio 2017 gli agenti dell' anti-borseggio della Polizia locale di Milano arrestano A. H.
, 36 anni, nata a Roma, «delinquente professionale» (come da articolo 103 del codice penale), ed E. S., 28 anni, anche lei rom bosniaca della Capitale. Stavano rubando dalla borsa di una turista statunitense. Entrambe sono incinte. Il giorno dopo, in «direttissima», patteggiano un anno e due mesi. È la tipica situazione che permette la sospensione della pena e la liberazione: l' esito più scontato in processi del genere. Ma il giudice Simone Luerti ribalta l' orientamento comune e stabilisce che per entrambe le donne ci siano «esigenze di eccezionale rilevanza» che impongono il carcere.
Il giudice ritiene «conclamato» che le due donne torneranno a rubare se lasciate libere.
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Spiega che «hanno evidentemente e con consolidata prassi approfittato della condizione di gravidanza, sia per apparire meno aggressive agli occhi dei malcapitati, sia per evitare più facilmente le conseguenze processuali dei fatti». E conclude: «Mentre la gravidanza non è ostativa a camminare per le vie cittadine in cerca delle vittime, la stessa condizione è invocata per evitare la detenzione, per altro in luogo più sicuro della precaria abitazione abusiva dove hanno dichiarato di vivere».
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Una delle donne finisce a San Vittore, l' altra (con la gravidanza più avanzata) nel reparto di «custodia attenuata» per detenute madri.
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