COME MAI ALLA DUCETTA È PARTITO L’EMBOLO CONTRO PRODI? PERCHÉ IL PROF HA MESSO IL DITONE NELLA…
Alberto Mattioli per "La Stampa"
Ah, les italiens. Scherzi della programmazione artistica: durante la loro lunghissima tournée europea, la Filarmonica della Scala e Riccardo Chailly arrivano alla Philharmonie di Parigi proprio in mezzo a una pesante crisi italo-francese con scambio di invettive transalpine. Ed è subito diplomazia della musica.
Le trionfali accoglienze dei cugini agli scaligeri che dimostrano che le note pesano molto più delle parole (è vero anche, però, che delle goliardiche sparate misogalliche dei nostri attuali reggitori si parla molto più in Italia che in Francia).
Il programma è quello che ha inaugurato la stagione della Filarmonica, solo che qui sembra anche più riuscito. Sarà l' acustica della sala che, a differenza di quella della Scala, è buona ed è pensata per la concertistica (a proposito: fa benissimo la Filarmonica a mettere sul tappeto l' idea di dotare Milano di un vero grande auditorium come in tutte le grandi città del mondo, all' attuale effervescenza urbanistica cittadina manca solo questo); sarà l' adrenalina per il fatto di giocare in trasferta; sarà il fatto che certi pezzi difficili più si suonano e meglio si suonano, fatto sta che venerdì è stata una magnifica serata, una delle migliori dei Filarmonici negli ultimi tempi.
Invece Maxim Vengerov, per fortuna, è sempre lui, e ri-suona da padreterno il Primo concerto per violino di Sostakovic. Benché scritto in anni in cui era meno frequente sparire da casa per ricomparire da qualche parte al di là dagli Urali, o mai, questo brano magnifico sembra davvero la colonna sonora delle grandi purghe, anche quando la tragedia diventa grottesca.
Vengerov è virtuoso, e nella Burlesque scatenato e infallibile insieme, ma sobrio: nessun bisogno di sottolineare troppo quel che è già evidente e, come nel lirismo tumefatto della Passacaglia, anche straziante.
Perfetta, per inciso, l' intesa con l' orchestra e con Chailly. Poi, il Concerto per orchestra di Bartók, pezzo notoriamente difficile e scelta coraggiosa. Ma è giusto così: si va nel mondo a sfidare ad armi pari le migliori compagini internazionali (inserite nello stesso cartellone della Filarmonica, per dire, ci sono Boston, il Mariinski, la Lso, la Gewandhaus, i Bamberger, i Münchner e i Berliner e così via...) senza presunzione ma senza complessi. La Filarmonica se la gioca, insomma, e vince.
Le singole sezioni, molto esposte, reagiscono alla grande, con alcune individualità in evidenza: per esempio, il timpanista venezuelano, Daniel Martinez, che la sua musica non si limita a suonarla, ma sembra che la danzi.
Chailly non fa sconti, stacca tempi anche più serrati che a Milano, e il Presto finale è una frustata aforistica e folgorante.
Così il Concerto diventa un monumento al Novecento storico, con tutte le sue sperimentazioni e, perché no, contraddizioni, non solo un micidiale banco di prova per chi deve suonarlo. Funziona, per fortuna, tutto, l' onore è salvo, gli applausi moltissimi, premiati dalla sinfonia della Semiramide di Rossini (soggetto francese, peraltro, "Sémiramis" di Voltaire, davvero siamo troppo legati da mille nodi per poter litigare sul serio), un bis che fa letteralmente esplodere la sala.
E intanto è da segnalare che in questo momento quattro musei parigini propongono mostre sull' arte o su artisti italiani, mentre l' Opéra festeggia i 350 anni dalla sua fondazione (ovviamente da parte di un italiano) mettendo in scena un oratorio di Scarlatti con un regista italiano.
Magari l' Italia da esportare è questa: non il pressapochismo o gli slogan o «il sorriso», abbiamo dovuto leggere anche questo, ma la competenza, il rigore, la bellezza. A parte tutto, la storia è lì a dimostrare che ci riesce pure meglio.
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