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È un atto di «discriminazione» che deve essere punito con il licenziamento dire «lesbica» a una collega. Lo ha stabilito la Corte di cassazione che ha confermato la «giusta causa» con cui la Tper, società del trasporto pubblico bolognese aveva mandato via un’autista che si era rivolto a una collega affermando: «Come sei incinta tu? non sei lesbica?».
Secondo i giudici «l’intrusione nella sfera intima e assolutamente riservata della persona con modalità di scherno» non può essere considerata solo «una condotta inurbana». La Corte di Appello di Bologna, nel 2020, aveva ritenuto eccessivo il licenziamento trasformandolo in recesso unilaterale da parte del datore condannato a versare all’autista venti mensilità. La suprema Corte ha invece stabilito che si tratta di un comportamento «non conforme ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell’ordinamento».
Anche perché il codice di Pari opportunità tra uomo e donna considera come «discriminazioni» anche le «molestie», ovvero «quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo» soprattutto «se subiti nell’ambito del rapporto di lavoro».
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