RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
Giulia Zonca per “La Stampa”
La lista è lunga, fatta di nomi che si muovono rapidi da un Paese all'altro. Duecento cicliste da portare fuori dall'Afghanistan il prima possibile perché non solo sono atlete e fare sport è proibito, sono soprattutto considerate «non più vergini» dal regime taleban e quindi guaste, avariate, da buttare.
Rischiano di tutto: di essere arrestate, di essere violentane, di dover sopravvivere chiuse in una stanza protette dalle stesse famiglie che le hanno aiutate a pedalare e ora smontano le bici per buttarne i pezzi.
Corpi del reato, corpi da nascondere, da mimetizzare tra la folla e caricare su mezzi che si inventano percorsi per seminare l'orrore. Una rete di speranza che vibra di paura.
Sessanta ragazze hanno già lasciato l'Afghanistan, molte sono arrivate in Europa o in Nord America, altre in Qatar fino alla partenza dei voli umanitari, ma tante sono ancora ferme, comprese le dodici che aspettano di arrivare in Italia.
I loro visti, le storie e il futuro sono cuciti insieme con cura e cautela dal dipartimento dello Sport e dalla Federazione Ciclistica italiana. Poi c'è qualcuno che muove questi fili fragili, sono due donne che non mollano la presa: una è Shannon Galpin, attivista americana, che sta sul posto e l'altra è Francesca Monzone, giornalista di «Tuttobiciweb», che compila i dossier e massaggia i sogni per tenerli vivi: «Sono il loro unico contatto con l'esterno, mandano messaggi tutti i giorni e parlano di quello che vorrebbero fare quando arriveranno qui, mi inviano foto e passioni, certe sono bambine e hanno visto cose indicibili».
Hanno tra i 15 e i 30 anni, ce ne sarebbero di più piccole, già schedate come «cicliste», marchio della depravazione, però è impossibile riuscire a ad avere i documenti necessari per le dodicenni e sarebbe anche dura farle resistere ai giorni tetri dell’attesa.
Le cicliste lasciano casa quando il visto per uno dei paesi vicini è pronto, Tagikistan, Emirati, non conoscono la destinazione, sanno solo che prima devono passare da Kabul, unico punto di raccolta.
ragazze afgane studiano tra le rovine a jalalabad in afghanistan
Sanno pure che quando i taleban si accorgeranno della loro assenza picchieranno le madri. È già successo, una tra le più giovani ha mandato via Internet le immagini di una signora pestata brutalmente: «Quando potrò rivedere i miei genitori?». Non c'è risposta.
La più nota del gruppo non voleva scappare: «Sono troppo riconoscibile, metterò in pericolo le altre e poi non ho più la mia bicicletta». Come se avesse perso i super poteri. Ha 18 anni, teneva sempre con sé la foto con la medaglia, l'ha buttata insieme con tutto il resto.
Ognuna può portarsi dietro solo uno zaino e poi affidarsi alla propria guida, sperare che a ogni passaggio non ci sia un'imboscata, come in «Handmaid's Tale», quando le ancelle seguono di notte gli uomini della resistenza, solo che questo non è un libro o un telefilm, è angoscia vera. Sono sistemate in degli alberghi, a 10 euro a notte o in delle case affittate da altri per 105 dollari al mese. Devono pregare che nessuno le denunci, hanno intorno persone che si spacciano per i guardiani e ricevono i soldi per cavarsela via Western Union.
A ogni ritiro una staffetta, a ogni passo un tuffo al cuore: «Presto torneremo qui a cambiare questo posto, dopo essere diventate medici e avvocati». Sarebbero dovute partire prima, le strade studiate non sono mai sicure, va rifatto il tragitto, ricambiata la destinazione. Di continuo.
Francesca le avvisa, sempre più triste: «Sono così coraggiose che consolano me. Alle mie cicliste è proibito pure immaginare». Una ha mandato un selfie con il burqa e a seguire la sua faccia che ci rideva sotto. Un'altra si appunta ricette da imparare a cucinare e una ha l'avvenire pronto: «L'Italia è il Paese della moda, la studierò per disegnare i vestiti con cui andare in bici in Afghanistan e i costumi per fare il bagno. Io non ho mai messo i piedi nell'acqua, non li posso scoprire».
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