RIUSCIRÀ MATTEO SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE…
Giovanni Bianconi per corriere.it
Cinque anni e mezzo fa, a fine 2014, l’avevamo visto entrare in galera dopo una cattura da film d’azione: macchina bloccata, fucili puntati e lui, Massimo Carminati, che tranquillizzava i carabinieri offrendo i polsi alle manette. Martedì 16 giugno l’abbiamo visto uscirne con una borsa a tracolla e la stessa aria dimessa (ma con un stato d’animo diverso, immaginiamo), salire su un taxi e dirigersi verso l’aeroporto. Da solo, come un qualsiasi passeggero.
È racchiusa in questa doppia e contrapposta immagine la sintesi di una vicenda che continua a creare clamore e sconcerto, oggi come allora. All’enfasi dell’arresto dovuta ad accuse pesanti e inedite — associazione mafiosa per l’ex terrorista nero Massimo Carminati — fa da contraltare quella di oggi, con annesse polemiche. Ma la scarcerazione del principale protagonista e imputato del cosiddetto «Mondo di mezzo» non è altro che la conseguenza della sentenza pronunciata dalla Cassazione nell’ottobre scorso.
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Quel verdetto ha cancellato «Mafia capitale», riducendo la più rumorosa vicenda giudiziaria romana degli ultimi anni a un’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione. Di grandi dimensioni, con funzionari asserviti e una «collusione generalizzata, diffusa e sistemica», ma pur sempre corruzione. Che secondo le norme in vigore prima della riforma cosiddetta «Spazzacorrotti» (e quindi al tempo dei reati commessi da Carminati e da tutti gli altri condannati) prevedeva una pena massima di otto anni; che comporta, in assenza di sentenza definitiva, un tetto per la carcerazione preventiva di cinque anni e quattro mesi.»
Quattro anni di 41 bis
Anche per Carminati, «l’uomo nero» indicato come uno dei più pericolosi e ambigui criminali, che in custodia cautelare ha scontato 5 anni e sette mesi. «E quasi quattro anni di 41 bis ingiustificato!», ha ricordato al suo difensore. Perciò è tornato un uomo libero in attesa che il giudizio finale determini la pena da scontare: «Mi hanno riconosciuto questo diritto, hanno applicato la legge».
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È una storia complessa ma semplice, seppure controversa; che fa scalpore per il nome del condannato messo fuori, ma dove non c’entrano né il ministro della Giustizia Bonafede (immediatamente chiamato in causa dall’opposizione politica) né probabilmente gli ispettori di cui lo stesso Guardasigilli ha subito annunciato l’invio, per controllare lo svolgimento dei fatti.
Nemmeno un più celere deposito delle motivazioni con cui la Cassazione ha escluso il reato di mafia (arrivate con cinque mesi di ritardo) avrebbe cambiato l’esito della storia. E fino a quel punto i tempi sono stati rispettati alla lettera: tre gradi di giudizio in meno di cinque anni per un processo con decine di imputati sono quasi un record.
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Reati e misteri
La scena della scarcerazione di Carminati stride con quella del 2014 perché nell’immaginario collettivo quel criminale passato dall’estremismo nero dagli anni Settanta alla criminalità comune degli Ottanta, muovendosi tra grande malavita, colpi clamorosi (come il furto al caveau nei sotterranei del palazzo di giustizia di Roma) e alcuni dei più grandi misteri italiani (dall’omicidio Pecorelli al depistaggio sulla strage di Bologna) e uscendone quasi sempre giudiziariamente indenne, è qualcosa di più di ciò che dice la fedina penale. È diventato ed è rimasto, per tutti o quasi, un depositario di segreti, l’uomo dai rapporti con i boss di tutte le mafie e i servizi segreti, sebbene proprio l’ultima sentenza della Cassazione abbia escluso o minimizzato queste relazioni. Facendo cadere anche per questo il reato di mafia:
«Un’associazione per delinquere che tra i suoi partecipi o capi annoveri un soggetto di riconosciuta fama criminale non diventa, per ciò solo, un’associazione di tipo mafioso».
La fama di malvivente Carminati non l’ha mai respinta, i legami con gli apparti dello Stato sì: «Per uno come me è un’offesa», disse nella deposizione al processo, quando rivendicò il suo passato nero: «Sono un vecchio fascista degli anni Settanta, e sono contento di essere così.
Non sono una mammoletta, ma non c’entro niente con Romanzo criminale, il Samurai e tutte quelle puttanate...». Lo raccontava pure nelle intercettazioni alla base del processo; le stesse in cui insieme a Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative rosse con il quale s’era messo in affari e che gestiva i suoi soldi, pianificava corruzioni e strategie per vincere o truccare le gare d’appalto.
Le altre mafie
Anche se presumibilmente un giorno dovrà tornare dietro le sbarre per finire di scontare la pena, Carminati ha vinto la sua battaglia perché l’ultima sentenza ricalca l’immagine che lui ha voluto dare di sé. Declassando (o ignorando) i rapporti documentati con altri criminali di grosso calibro, dal boss Michele Senese a esponenti del clan Casamonica, o le intimidazioni e minacce emerse nel processo.
Tuttavia se il malvivente multiforme torna libero, non significa che a Roma e dintorni non ci siano le mafie. Carminati è stato scarcerato nel giorno di altri venti arresti per l’associazione mafiosa contestata ai Casamonica; pochi giorni dopo una sentenza che a Viterbo ha riconosciuto la stessa accusa a una banda calabro-albanese (contestata sempre dalla Procura di Roma); a qualche settimana dalla conferma in Cassazione della mafiosità del clan Pagnozzi, «i napoletani della Tuscolana». Realtà criminali che resistono anche senza «Mafia capitale».
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