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Estratto dell’articolo di Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera”
LETTERA DI GERARDA PICCIARIELLO
«Se state leggendo questo foglio è perché non posso continuare a vivere, sapendo quello che ho scoperto oggi». Di una lettera che comincia così non si può mai chiedere conto a chi ne è l’autore. Perché se c’è chi la legge vuol dire che non c’è più chi l’ha scritta.
E infatti quando i parenti di Gerarda Picciariello l’hanno trovata, lei — una donna di 61 anni con la vita segnata dalla morte della nipotina neonata e dalla condanna a dieci anni di carcere della figlia, accusata di essere una madre omicida — si era già lanciata contro un treno in corsa, lasciando di sé solo il ricordo e quella lettera.
Che però è molto più che un addio ai propri cari: è la confessione di una scoperta, qualcosa che Gerarda aveva sepolto in uno di quegli angoli della mente dove capita che si lascino inconsapevolmente scivolare i ricordi più dolorosi. Lei all’improvviso ha scoperto ciò che aveva rimosso: qualcosa di insopportabile.
Pontecagnano è un paese attaccato a Salerno, dove la provincia comincia a stendersi verso il mare del Cilento. È qui che viveva Gerarda e anche sua figlia, Denise Schiavo, che nel 2014 mise al mondo la piccola Chiara, una bimba nata prematura e costretta a una lunga degenza in ospedale.
Ancora neonata, però, la piccola viene ricoverata di nuovo: ha ecchimosi sul corpo, e successivamente si scopre che ha le tempie e alcune costole fratturate: ha subito un trauma e le cure alle quali sarà sottoposta non riusciranno a salvarla. Muore a due mesi nell’ospedale pediatrico Santobono di Napoli.
Sono i genitori a rivolgersi alla magistratura chiedendo che sia fatta luce sulla tragedia, ma le indagini, dopo aver puntato in altre direzioni, si concentrano su Denise Schiavo. La perizia medico-legale ha stabilito che Chiara è morta in seguito alla sindrome del bimbo scosso, e per la Procura di Salerno a strattonarla fino a provocarle una emorragia interna è stata sua madre, probabilmente in un momento di insofferenza.
Denise viene rinviata a giudizio per omicidio preterintenzionale e, nonostante le argomentazioni difensive del suo legale, l’avvocato Michele Sarno, siano solide e circostanziate, viene condannata a dieci anni al termine di un lungo e complesso iter dibattimentale.
Ma sua madre non ci sta. Fa domanda di grazia al presidente Mattarella e intanto spera che si possa far riaprire il processo. Perciò legge e rilegge le carte processuali, e quando arriva alle pagine in cui si parla della frattura alla testa, si convince che è stata tutta colpa sua. E nella lettera ai familiari spiega perché.
«Un velo mi si è alzato dalla mente, mi rivedo con la bambina in braccio mentre cerco di adagiarla nella sua carrozzina alloggiata nella Fiat Stilo a tre porte, eravamo alla fine di agosto, mi sopraggiunge un giramento di testa e il capo della bimba sbatte vicino alla portiera. Giuro, avevo rimosso quell’episodio», ma ora «ditemi, che altro potrei fare se non togliermi la vita? Vi chiedo di perdonarmi». […]
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