DAGOREPORT – MATTEO FA IL MATTO E GIORGIA INCATENA LA SANTANCHÈ ALLA POLTRONA: SALVINI, ASSOLTO AL…
Lodovico Poletto per "la Stampa"
Sette giorni e una sola certezza: la strage del Mottarone è stata provocata dal blocco dei freni di emergenza della cabina numero 3 della funivia che, dalle sponde del Lago Maggiore, a Stresa, sale in cima alla montagna. Fine.
Tutto il resto va rivisto. Ridiscusso. Rianalizzato, alla ricerca di elementi che spieghino due cose. Uno: perché la fune trainante si è spezzata. Due: chi davvero sapeva, e chi ha fatto viaggiare quella cabina della funivia in spregio a ogni più elementare norma di sicurezza. In spregio al buonsenso. Alla cura che va messa nel tutelare i clienti. All' umanità.
La svolta dell' altra notte racconta una storia diversa da quella narrata subito dopo gli arresti della scorsa settimana. E il gip Donatella Bonamici, in venti pagine, smonta i ragionamenti della procuratrice Bossi. Offre una lettura differente delle dichiarazioni di Gabriele Tadini, il caposervizio che ha fatto scattare le manette. E la sintesi è: ha chiamato in causa gli altri per alleggerire la sua posizione. O quantomeno, le sue spiegazioni sono deboli e non supportate.
Ecco, bisogna partire da qui, da questa lettura, per capire la «ratio» adoperata dal giudice per le indagini preliminari per scarcerare Gigi Nerini ed Enrico Perocchio: il boss e il responsabile del servizio di trasporto su fune, per altro mai interrogati. E ciò che scrive Buonamici è una pietra tombale sulle scelte del capo della Procura. La prima: «Il fermo è stato eseguito fuori dai casi previsti dalla legge». La seconda: Non c' è «alcun elemento dal quale sia possibile evincere il pericolo di fuga» degli indagati.
Motivo? Perocchio è un professionista, un padre con una situazione famigliare complessa. Nerini, invece, ha costruito la sua vita qui, sulle sponde del lago. Ha due figli, è separato e non ha ragioni di voler fuggire. Tadini invece è reo confesso: la sua libertà personale va limitata. Ma agli arresti domiciliari. A riguardo del «clamore mediatico nazionale e internazionale attorno a questa vicenda» scritto da Bossi nel decreto di arresto, viene definita «di palese evidenza» la sua «totale irrilevanza» rispetto al pericolo di fuga. Che c' entra, cioè, tutto questo con le manette? E con il carcere? Bonamici è lapidaria: «Ci sono indizi di colpevolezza solo nei confronti di Gabriele Tadini».
E così torna daccapo. Ai racconti del caposervizio che ha chiamato in causa gli altri due. Ai verbali dei sei impiegati delle Ferrovie del Mottarone interrogati nei giorni successivi alla sciagura. Alle spiegazioni. Tadini tira in ballo i suoi due superiori. Dice testualmente a verbale: «Dell' iniziativa di mettere i ceppi ai freni della cabina 3 ne ho parlato con l' ingegner Perocchio, al quale ho anche detto che per poter far funzionare l' impianto sarei stato costretto a mantenere tale accorgimento. Lo sapeva anche il signor Nerini, di fatto lo sapevano tutti».
strage funivia del mottarone 2
Ecco, il gip smonta questa chiamata in correità. Dice che non basta una frase. Non bastano poche parole non supportate da altri elementi e per di più pronunciate dopo 7 ore di interrogatorio: «Che ne confermino l' attendibilità». E ancora: «Nemmeno alcun riscontro emergeva dalle dichiarazioni dei dipendenti della Mottarone».
Già, i dipendenti. Tutti sapevano, o quasi, dei blocchi ai freni di emergenza sulla cabina 3. Sapevano che Tadini faceva piazzare i «forchettoni» perché c' erano dei cali di pressione sui freni. Ma soltanto uno di loro chiama in causa i vertici dell' impianto. Il suo nome è Fabrizio Coppi.
INCIDENTE FUNIVIA STRESA MOTTARONE
Che a verbale dice: «Ho personalmente capito, in più occasioni, che il signor Tadini riferiva al direttore d' esercizio e al gestore dell' impianto di avarie o anomalie riscontrate e che era necessario bloccare l' impianto stesso».
E ancora: «Nonostante questo la loro volontà era quella di proseguire, rimandando l' eventuale riparazione... più avanti nel tempo, quando cioè la funivia si sarebbe fermata per la chiusura stagionale, o se si trattava di riparazioni più semplici e veloci nei giorni di brutto tempo, quando l' affluenza dei turisti sarebbe stata pari a zero». L' affondo arriva poche domande dopo: «Ho udito più volte Tadini discutere animatamente al telefono con Perocchio e Nerini poiché questi ultimi erano contrari alla chiusura dell' impianto, nonostante la volontà di Tadini fosse di chiudere».
Tutti gli altri no. Non parlano dei vertici della società. Raccontano che Tadini era rimasto l' unico caposervizio «perché il suo collega era andato in pensione all' inizio del 2021 e non era ancora stato sostituito». Narrano dettagli sui ceppi. Come e quando venivano messi. Spiegano che Tadini «doveva essere informato». Che era «lui a decidere».
Qualcuno ammette: «Sì, li ho messi pure io, ma su indicazione del nostro responsabile». Cioè sempre lui, sempre l' ultrasessantenne dipendente delle Ferrovie del Mottarone da 36 anni in servizio a Stresa: Gabriele Tadini, l' uomo dei tormenti post disastro, della confessione tirata fuori con le pinze (dopo un fiume di domande), della chiamata in correità degli altri due.
La giudice per le indagini preliminari, nelle 24 pagine di ordinanza, offre anche una spiegazione del perché il caposervizio della Mottarone potrebbe aver fatto i nomi degli altri: «Tadini sapeva benissimo di essere stato lui a prendere la decisione di non rimuovere i ceppi. Sapeva perfettamente che il suo gesto scellerato aveva provocato la morte di 14 persone. E che sarebbe stato chiamato a rispondere, anche e soprattutto in termini civili, del disastro causato in termini di perdite di vite umane».
Ed è per questa ragione che Bonamici parla di «credibilità profondamente minata». Come dire: non è il miglior testimone al mondo su cui basare una intera ricostruzione di questa vicenda. Anche perché aveva troppi interessi nel raccontare una verità differente da quella reale.
Di più. Ecco la frase che insinua dubbi su tutto e che trae origine dalle spiegazioni precedenti: «E allora perché non condividere questo immane peso, anche economico, con le uniche due persone che avrebbero avuto la possibilità di sostenere un risarcimento danni».
il forchettone dei freni di emergenza della funivia del mottarone
E ancora: «Perché non attribuire ANCHE a Nerini e Perocchio la decisione di non rimuovere i ceppi?». Con quell'«anche» scritto in maiuscolo, a significare che potrebbe esserci stato un tentativo di «condividere» le responsabilità. E conclude così: «Tadini sapeva benissimo che chiamando in correità i soggetti FORTI (scritto di nuovo in maiuscolo) del gruppo, il suo profilo di responsabilità sarebbe stato, se non escluso del tutto, quantomeno attenuato».
Insomma: l' impianto dell' accusa passato al primo vaglio non starebbe in piedi. Anche perché l' unica motivazione offerta è quella economica. Che per il gip è troppo fragile. Leitner veniva pagata 120 mila euro l' anno per le riparazioni. Tutto compreso. Non c' era ragione di non fermare la funivia.
il forchettone dei freni di emergenza della funivia del mottarone
Ecco, l' inchiesta riparte da qui. Dalla frenata impressa dal gip. Riparte dalle perizie sulla fune, da quelle sui documenti non ancora presi in considerazione, dalla «scatola nera» che gli operatori dicono esserci «ma non sappiamo dov' è». E forse, alla fine di tutto questo salteranno fuori altre responsabità. Altri nomi. Dopo l' altra notte tutto gira attorno ad un uomo prossimo alla pensione: Gabriele Tadini. Reo confesso.
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