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Estratto dell’articolo di Gianmaria Tammaro per www.lastampa.it
Dieci anni fa, La grande bellezza di Paolo Sorrentino vinceva l’Oscar per il miglior film straniero. La cosa più incredibile, però, non è il premio (certo, è incredibile pure quello, e per inciso: in bocca a lupo a Matteo Garrone); la cosa più incredibile è la storia del suo percorso, di come abbia fatto a trovare il momento e lo slancio giusti, tra sacrifici, caparbietà e passione. […]
In Italia, La grande bellezza era uscita un anno prima, nel 2013. Aveva avuto successo, incassato bene (2 milioni e più di euro solo nella prima settimana di programmazione), ottenuto il plauso della critica e del pubblico. Jep Gamberdella, più per il talento di Toni Servillo e per la qualità della scrittura di Sorrentino e Umberto Contarello che per un puro colpo di fortuna, era diventato un guru, un esempio, un jukebox di battute brillanti e spiazzanti. […]
Felliniana, onirica, enorme, pienissima, divisa (quasi) equamente tra alto e basso, tra sacro e profano, proprio come Roma, La grande bellezza si era trasformata in un simbolo, in un caso quasi politico (lì, alle feste di Gambardella, c’era pure un ospite anonimo che sbirciava e viveva in segreto). Noi siamo come lui, come Jep, diceva qualcuno. E invece no. Noi vorremmo essere come Jep […]
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Noi il mare non lo vediamo sul soffitto della nostra camera, e non sentiamo nemmeno il tuff, tuff, tuff dei motoscafi. Noi siamo condannati a una vita tesa, a metà, felice e infelice insieme. Jep Gamberdella, invece, era – ed è ancora, sempre grazie a Servillo e a Sorrentino – un personaggio della letteratura contemporanea, un Ulisse figlio di Napoli, impiantato a Roma, che ha imparato a conoscere sulla propria pelle come funziona il mondo. Si perdeva tra i rimpianti di una giovinezza fatta di bagni a mezzanotte, di baci rubati e di amori apparentemente inossidabili e invincibili per poi ritrovarsi in mezzo ai due fuochi dell’amicizia e della passione (che bravi Carlo Verdone, Carlo Buccirosso e Sabrina Ferilli).
Sorrentino è Sorrentino. Ha i suoi maestri e i suoi riferimenti. Però etichettare questo film, La grande bellezza, come un’unica cosa, come un’idea satellite della filmografia di qualcun altro, è non solo sbagliato, ma proprio imbarazzante. Perché c’è il rischio, così, di perdersi tutto il resto. La grande bellezza è un’opera-fiume che parte da un punto e arriva a un altro, che ci dice della vita e della mondanità, di quell’incredibile fatica che è stare al mondo, e intanto ci mostra, ci suggerisce, si diverte.
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I locali, la dolce vita degli anni Duemila, la chiesa e i cardinali appassionati di cucina e poco di fede; l’importanza delle radici, la Costa Concordia come una grande, solenne metafora dell’Italia che va a fondo e di cui nessuno sembra interessarsi. E poi i colpi di cannone che ci risvegliano dal torpore di una vita passata in mezzo alla mediocrità, i funerali come momento di massima visibilità per sé stessi e non per gli altri. Roma che abbraccia e che poi abbandona i suoi figli. La pasta riscaldata del giorno dopo, che è sempre più buona e saporita del giorno prima.
Dieci anni fa, questo film vinceva l’Oscar, e ci riusciva perché Nicola Giuliano di Indigo e lo stesso Sorrentino decisero di imbarcarsi in un viaggio negli Stati Uniti per incontrare, conoscere e salutare i grandi elettori dell’Academy. Erano fondamentalmente soli: due uomini contro tutti. Giuliano ha raccontato che viaggiavano insieme, che spesso condividevano il letto, e che finivano per ritrovarsi in situazioni assurde, a pranzo o a cena con i loro miti di sempre. Fu questo lavoro – qualcuno, oggi, lo definirebbe di “pubbliche relazioni” – a portare La grande bellezza in cinquina, e fu in quel momento, poi, che arrivarono i rinforzi del distributore italiano e internazionale.
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Ve lo dicevamo all’inizio: è una storia nella storia. Un altro Oscar, un altro capolavoro. Sorrentino, sul palco, ringraziò – a parte Servillo e Giuliano, che erano lì con lui, sorridenti e soddisfatti, cast e troupe – Fellini, i Talking Heads, Martin Scorsese e Diego Armando Maradona. Ancora una volta, come nel film: alto e basso, sacro e profano, il vero verissimo e la semplicità della vita insieme. E forse è questa la vera, grande bellezza.
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