guerre made in italy

BUM! BUM! MADE IN ITALY - 36 MILIARDI IN 25 ANNI DI EXPORT: PER LE AZIENDE ITALIANE IL BUSINESS DELLE ARMI NON CONOSCE CRISI - SCAMBI CON 123 PAESI, PIÙ DELLA METÀ DELLE ESPORTAZIONI HA RIFORNITO ESERCITI DI PAESI NON APPARTENENTI ALL’UE O ALLA NATO!

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Michele Sasso per “espresso.repubblica.it”

 

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Pistole esposte alla fiera delle armi di Brescia Venticinque anni di una legge figlia di una grande mobilitazione contro «i mercanti di armi» con risultati contrastanti: 36 miliardi di euro il valore dell’export di missili, sistemi radar, elicotteri e carri armati finiti a 123 paesi. Senza farsi tante domande sui controlli, le informazioni non trasparenti e una lista di regimi che le usano per schiacciare il dissenso. I dati sono diffusi dalla rete italiana per il disarmo , in occasione del venticinquesimo anniversario di approvazione della legge 185 che regolamenta la vendita ai Paesi oltre confine del business di armi.

Un quarto di secolo è un periodo abbastanza lungo per capire come è cambiato il mondo: dalle contrapposizioni della guerra fredda alla caccia globale al terrorismo, fino ai nuovi fermenti del post primavera araba. Le rivoluzioni si fanno prima di tutto con i fucili e, sopratutto nel Mediterraneo, il nostro Paese è stato sempre protagonista delle forniture.

«Secondo la legge e secondo il buonsenso l'export militare dovrebbe essere in linea con la politica estera del nostro Paese, ma negli ultimi anni la direzione è invece stata principalmente quella degli affari», afferma Francesco Vignarca coordinatore della campagna.

Il rigore non è stato il criterio principale a giudicare dai numeri. In questi 25 anni, infatti, i sistemi militari italiani sono stati esportati a ben 123 nazioni, tra cui alle forze amate di regimi autoritari di diversi paesi come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto, la Libia, la Siria, Kazakistan e Turkmenistan, a paesi in conflitto come India, Pakistan, Israele ma anche la stessa Turchia, fino a paesi con un indice di sviluppo umano basso come il Ciad, l’Eritrea e la Nigeria.

Più della metà delle esportazioni ha rifornito eserciti al di fuori delle principali alleanze politico-militari di Roma e cioè i paesi non appartenenti all’Unione europea o alla Nato: un dato preoccupante se si considera che le esportazioni di armamenti «devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia».

Solo nel 2014 abbiamo venduto senza sosta. «Il valore globale delle licenze di esportazione definitiva – scrive il ministero degli Esteri nella relazione al Parlamento – è stato di 2 miliardi e 650 milioni di euro».

Tra i singoli paesi destinatari ai primi posti figurano due tra i principali alleati, come gli Stati Uniti (4,5 miliardi di euro) e il Regno Unito (4 miliardi), ma anche consistenti esportazioni a due tra i regimi più autoritari del pianeta, l’Arabia Saudita (3,9 miliardi) e gli Emirati Arabi Uniti (3,2 miliardi) verso i quali le esportazioni di sistemi militari sono andate crescendo soprattutto negli ultimi anni. Senza dimenticate le criticità interne e l’instabilità regionale della Turchia (2,7 miliardi), l’India (1,6 miliardi) e il Pakistan (1,2 miliardi).

«Se ci limitiamo agli ultimi cinque anni – sottolinea Giorgio Beretta analista dell’osservatorio sulle armi leggere – ai primi posti ci sono Algeria, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, con il solo inserimento degli onnipresenti Stati Uniti al terzo posto. È chiaro dunque in che direzione stiano andando gli affari dell’esportazione made in Italy».

NE’ TRASPARENZA NE’ CONTROLLI

I dati quantitativi dell’export di armamenti offrono importanti indicazioni per esaminare la politica adottata in questi anni dai vari governi. Ma per verificare la corretta attuazione  della legge occorrerebbe un’analisi dettagliata degli specifici sistemi d’armamento esportati dall’Italia nei vari paesi. E proprio questa verifica nel corso degli anni è diventata sempre più difficile tanto da renderla oggi praticamente impossibile.

Mentre, infatti, le prime Relazioni consegnate al Parlamento riportavano con precisione, e in un chiaro quadro sinottico, il tipo d’arma esportato per quantità e valore, la ditta produttrice e il paese destinatario, nel corso degli anni queste informazioni sono state scorporate in una serie di tabelle che oggi non permettono più di tracciare i diversi paesi acquirenti.

Inoltre nel corso degli ultimi anni è stato reso impossibile conoscere le singole operazioni svolte dagli istituti di credito: un fatto che ha favorito soprattutto i gruppi bancari esteri – come Bnp Paribas e Deutsche Bank – che, a differenza di gran parte delle banche italiane, non hanno adottato politiche di responsabilità sociale riguardo ai finanziamenti all’industria militare e ai servizi per esportazioni di armi.

Nel contempo è venuta meno anche l’attività di controllo del Parlamento. Dopo anni di pressioni da parte della rete italiana per il disarmo, lo scorso febbraio le competenti commissioni della Camera sono tornate ad esaminare la relazione governativa: ma la seduta è durata meno di un’ora e al momento non si ha notizia di ulteriori iniziative.

MESSI AL BANDO I MERCANTI DI MORTE

Il Parlamento votò in maniera definitiva il testo il 9 luglio del 1990, dopo anni di discussione stimolata soprattutto dalla campagna “Contro i mercanti di armi” promossa dalla società civile.

“Le armi italiane uccidono in tutto il mondo”, era il leit motiv dell’appello che diede vita alla mobilitazione «nata per contrastare i commerci di armi che vedevano il nostro Paese in prima fila, spesso nei traffici illeciti e clandestini – sottolinea Eugenio Melandri, una delle  menti della campagna per la legge 185 - Armamenti e mine, tante mine, che andavano anche a Paesi in guerra con una sorta di ecumenismo degli affari che permetteva di esportare armi a tutte le parti in conflitto».

I principi prevedono il divieto di esportazione di armamenti verso: paesi in stato di conflitto armato, governi la cui politica contrasti con l’articolo 11 della Costituzione italiana, stati sotto embargo totale o parziale delle forniture belliche da parte dell’Onu o dell’Unione europea, paesi responsabili di accertate gravi violazioni alle Convenzioni sui diritti umani, e paesi che, ricevendo aiuti dall’Italia, destinino al proprio bilancio militare risorse eccedenti le esigenze di difesa del paese.

Nei primi anni di applicazione i principi innovativi e il controllo, esercitato anche tramite la relazione al Parlamento da parte del Governo, hanno permesso la diminuzione delle vendite verso Paesi con situazione problematica o in conflitto più o meno conclamato.
Un trend che purtroppo si sta modificando in maniera netta negli ultimi anni.

«I numeri non mentono: la benzina che alimenta il fuoco delle guerre la forniamo noi. Nel quinquennio 2005-2009 è stata l’Unione Europea ad essere l’area di maggior vendita delle armi ma in quello successivo il primato è invece andato al Medio Oriente e al Nord Africa. Regioni tra le più turbolente del globo e devastate da guerre civili e attacchi terroristici» conclude Francesco Vignarca.

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