datore di lavoro mobbing

I CAPI ROMPICOGLIONI? SE NON VOLETE ESSERE LICENZIATI, VE LI TENETE. OPPURE CAMBIATE LAVORO – PER LA CASSAZIONE, OFFENDERE IL PROPRIO SUPERIORE IN PUBBLICO PUÒ ESSERE CONSIDERATO GIUSTA CAUSA DI LICENZIAMENTO – LA CORTE DOVEVA DECIDERE SUL CASO DI UNA PSICOLOGA CHE DISCUTENDO DELLE FERIE AVEVA DEFINITO “LECCACULO” UN RESPONSABILE, DAVANTI A UNA COLLEGA. L’ENTE L’AVEVA CACCIATA, MA IL TRIBUNALE IN PRIMO GRADO AVEVA RITENUTO SPROPORZIONATA LA SANZIONE. LA CORTE D’APPELLO AVEVA RIBALTATO IL VERDETTO, E LA CASSAZIONE L’HA CONFERMATO

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Andrea Carlino per www.orizzontescuola.it

 

licenziamento illecito

Offendere il proprio capo in pubblico non è solo una caduta di stile: può essere considerato giusta causa di licenziamento. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 21103 del 24 luglio 2025, chiudendo una vicenda iniziata nel 2018.

 

Protagonista, una psicologa, collaboratrice di un’associazione, che in piena discussione sulle ferie aveva definito il proprio responsabile “lecca****”, davanti a una collega e rifiutando di eseguire le istruzioni ricevute. L’ente, ritenendo il gesto lesivo del rapporto di fiducia, l’aveva licenziata per grave insubordinazione.

 

MOBBING SUL LAVORO

In primo grado, il Tribunale di Catania aveva ritenuto sproporzionata la sanzione, ordinando la reintegra e il pagamento di dodici mensilità. Ma la Corte d’Appello nel 2023 ha ribaltato il verdetto, qualificando il comportamento come di “notevole gravità” anche senza reiterazione nel tempo.

 

Il contesto e i precedenti disciplinari

Secondo la ricostruzione dei giudici, l’insulto non era un’esclamazione isolata, ma un attacco diretto all’autorità gerarchica, peggiorato dalla presenza di un testimone e dall’avvenuta contestazione durante l’esecuzione di un ordine.

 

licenziamento illecito

La Corte ha inoltre rilevato come la lavoratrice avesse un precedente disciplinare del 2016, quando aveva insultato il padre di un paziente. Pur non configurando una recidiva in senso tecnico, il fatto è stato considerato “indice della facilità con la quale la dipendente trascende nell’uso di toni offensivi”.

 

I giudici d’appello hanno sottolineato che la modalità dell’offesa – pubblica, gratuita e con rifiuto di adempiere – rafforzava la gravità del comportamento. Né la lunga anzianità di servizio né le condizioni personali prospettate dalla lavoratrice sono state ritenute idonee a ridimensionare l’episodio, che ha inciso secondo il collegio “in modo irreparabile” sul vincolo fiduciario.

 

licenziamento

Il verdetto della Cassazione e il principio affermato

La Suprema Corte ha respinto il ricorso su tutti i cinque motivi presentati dalla dipendente, rilevando che miravano in sostanza a ottenere una nuova valutazione dei fatti, operazione preclusa in sede di legittimità.

 

È stato ribadito che anche un solo episodio può integrare una giusta causa di licenziamento quando possiede un’intrinseca gravità tale da impedire la prosecuzione del rapporto. La valutazione della Corte d’Appello è stata definita congrua e coerente con gli standard giurisprudenziali in materia di art. 2119 c.c.

mobbing

 

Il principio cardine fissato è chiaro: un’offesa grave al superiore, soprattutto se pronunciata davanti ad altri e in occasione di un atto di servizio, configura una violazione insanabile del rapporto fiduciario e legittima il licenziamento immediato, senza necessità di comportamenti reiterati. La lavoratrice è stata condannata anche al pagamento di 4.000 euro di spese legali oltre accessori e al versamento dell’ulteriore contributo unificato.

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