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Da "Il Foglio"
Era la metà degli anni Zero e l'ultima Big thing, la nuova "rivoluzione digitale" destinata a cambiare il mondo, era il blog. Ogni cittadino avrebbe avuto il suo spazio di espressione, ci dicevano, e l'informazione sarebbe stata finalmente democratizzata. Non perché accessibile a tutti, ma perché realizzabile da tutti. Tutti i blogger sarebbero diventati giornalisti, era la promessa.
Non è stata mantenuta, i blogger non sono riusciti a fare il grande salto e la rivoluzione è stata inversa: tutti i giornalisti sono diventati blogger. Come un blogger ambizioso, il giornalista è diventato l'imprenditore di se stesso. E' uno dei dogmi del nuovo giornalismo dell'epoca digitale, il giornalismo senza soldi che non sa più vendere copie, è la lezione che i guru dell'informazione consegnano al ragazzo che vuole sfondare: diventa tu stesso il prodotto, "brandizza" il tuo nome.
Bisogna aprirsi con la forza spazi di espressione personale, produrre opinioni forti, conquistare i lettori e fare in modo che si affezionino alla firma, non alla testata - sempre che ancora ce ne sia una. Il nuovo giornalista deve saper saltare di liana in liana, anche chi è al calduccio in una redazione non può più stare sicuro, bisogna tenersi pronti a sganciarsi in qualsiasi momento dalle carcasse in putrefazione dei vecchi giornali.
Finora però nemmeno i guru dell'informazione avevano creduto ai propri consigli. I giornali saranno anche in putrefazione, ma sono ancora piuttosto confortevoli. Le cose sono cambiate negli ultimi mesi, quando in America molti giornalisti hanno ritenuto che dopo i lunghi anni passati a fare di se stessi un marchio fosse ora della vendemmia.
A gennaio c'è stato Andrew Sullivan, inglese cattolico conservatore omosessuale, "il più famoso blogger del mondo" (ma già giovanissimo direttore del New Republic negli anni 90, poi firma del Magazine del New York Times), che ha tolto il suo blog The Dish dai porti riparati del Daily Beast (prima erano il Time e l'Atlantic) per mettersi in proprio, raccogliendo centinaia di migliaia di dollari in abbonamenti annuali.
L'equazione è stata semplice: il suo nome, che da solo era stato in grado di far crescere del 30 per cento il traffico sul sito dell'Atlantic, non aveva più bisogno dei giornali per reggersi. Dopo Sullivan, molti colleghi hanno fatto lo stesso calcolo.
L'ultimo è David Pogue, firma tecnologica del New York Times e autore di video brillanti sull'hi-tech. Pogue (lo ha annunciato lunedì sul suo seguitissimo blog, ovviamente) inizierà una collaborazione con Yahoo per creare un sito di tecnologia, dove potrà godere di nuova autonomia.
I due casi più importanti però sono quelli di Nate Silver, l'uomo dei numeri che con i suoi sondaggi ha previsto con impressionante precisione due elezioni presidenziali, si è improvvisato columnist per il New York Times (responsabile per un certo periodo del 20 per cento del traffico del sito) e ha abbandonato il giornale dopo poco per lanciare un progetto personale, e di Glenn Greenwald, il giornalista che ha messo le mani sullo scoop del decennio, ha infangato l'Agenzia per la sicurezza americana e oggi abbandona il Guardian per mettersi in affari con il miliardario fondatore di eBay.
Tutto quello che si sa di entrambi i progetti è la loro dimensione faraonica. Silver, in partnership con l'emittente sportiva Espn, creerà un sito di politica, economia, sport dove i numeri prevarranno sulla narrazione, mentre Greenwald avrà a disposizione 250 milioni di dollari (il prezzo di tutto il Washington Post) per il suo progetto di giornalismo investigativo - della specie più rabbiosa, c'è da giurarci. A lasciarci senza fiato è l'idea che i posti più prestigiosi del mondo nei giornali più prestigiosi del mondo non siano sufficienti per trattenere i giornalisti-marchio (ma lo sono carrozzoni in perdita come Yahoo).
Greenwald, Sullivan, Silver forse apriranno la strada a una nuova generazione di giornalisti- blogger-imprenditori, forse sono solo l'altra faccia di una generazione, tra chi legge e tra chi scrive, che dei giornali ha già imparato a fare a meno. Con buona pace dei fautori delle intelligibili garanzie del giornalismo tradizionale, il giornalismo del futuro sarà decisamente fatto-da-sé.
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