DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Gianni Santucci per il “Corriere della Sera”
Il piccolo imprenditore, settore tessile, azienda in alta Lombardia, un giorno intonò pure una canzonetta: su una melodia dei Cugini di campagna («Anima mia»), «rivisitò» il testo per descrivere un rapporto sessuale tra la sua dipendente e un uomo di colore. Alla stessa impiegata riservava battute continue, pronunciate davanti ai colleghi: «Con te avrei paura di fare sesso, secondo me gli uomini li distruggi», «usi giocattoli erotici». Il campionario virava spesso al greve: «Ti metterei un cuscino sulla faccia e...».
Non si tratteneva neppure con i fornitori: «Facciamo un cambio merce, io ti do lei», o di fronte ad altri impiegati durante le fiere, quando annunciava una (mai concessa) disponibilità sessuale della sua dipendente e invitava: «Dai, andiamo tutti con lei nello sgabuzzino». È durato cinque anni (2008-2013) questo «autentico inferno lavorativo e umano», come ha spiegato la donna davanti ai giudici. E s'è chiuso con una decisione appena depositata dalla sezione lavoro del Tribunale civile di Como.
Una sentenza contro l'imprenditore che presenta almeno un paio di aspetti inediti: una condanna per molestie esclusivamente verbali (praticamente senza alcun contatto o approccio fisico), tanto da configurare una sorta di mobbing sessuale. E poi l' entità del risarcimento, 105 mila euro, circa 150 mila con le spese.
L'imprenditore, una ventina di dipendenti, ha denunciato la donna per calunnia (poi archiviata) e ha provato a sostenere che in azienda si viveva soltanto un clima informale e goliardico. L'impiegata ha denunciato nel settembre 2013 e si è infine dimessa a luglio del 2014. È stata assistita dal legale Domenico Tambasco, con la consulenza di parte di Harald Ege (un'autorità in materia, lo studioso che ha introdotto il termine mobbing in Italia) e il sostegno della consigliera di pari opportunità della Provincia di Como.
Da anni aveva attacchi di panico, è stata costretta a prendere psicofarmaci prescritti dal suo medico, è stata visitata da altri specialisti; al consulente nominato dal Tribunale, ha spiegato: «Le molestie mi infastidivano da morire, ma avevo il mutuo da pagare, c'era la crisi e non era facile trovare un altro lavoro».
Proprio l'esperto incaricato dal giudice ha individuato nella donna «sentimenti di auto-svalutazione e colpa (conseguenze che si verificano spesso nelle vittime di molestie o aggressioni sessuali, ndr ). La signora si auto accusava di non avere avuto la capacità di valutare l'altro e di prevenirne i comportamenti scorretti». Il medico ha concluso la sua perizia con una diagnosi di «distimia»: una sorta di «depressione cronica, più lieve nei sintomi rispetto alla depressione maggiore, ma prolungata nel tempo».
Un disturbo del quale «le condizioni negative di lavoro sono state indubbiamente causa». È anche in base a quella perizia che i giudici scrivono in sentenza: «L' essere oggetto anche solo di battute volgari, oscene, alla lunga intollerabili da parte del datore di lavoro, risulta oggettivamente lesivo del rispetto dovuto a qualsiasi donna e può sicuramente rendere l'ambiente di lavoro ostile, degradante e umiliante».
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