COME MAI ALLA DUCETTA È PARTITO L’EMBOLO CONTRO PRODI? PERCHÉ IL PROF HA MESSO IL DITONE NELLA…
Elisabetta Rosaspina per il “Corriere della sera”
Sessantuno persone risponderanno alla giustizia, ma molte altre solamente alla loro coscienza per il linciaggio di Djamel Bensmail, il volontario di 36 anni scambiato per un piromane e massacrato dalla folla a Larbaa Nath Irathen, nella regione algerina della Cabilia, da tre settimane devastata dalle fiamme. «Non ho appiccato nessun incendio, sono venuto qui per aiutarvi», Djamil ha cercato invano di far ragionare quella massa furiosa e senza testa.
Nessuno gli ha dato retta, nessuno lo ha protetto, nemmeno gli agenti che lo avevano in custodia e lo stavano conducendo in commissariato per accertamenti. Il giovane uomo è stato estratto a forza dal furgone nel cortile della stazione di polizia, trucidato a coltellate e a mani nude da una multitudine rabbiosa ed eccitata. Il suo corpo è stato trascinato nella piazza centrale della cittadina, bruciato e decapitato, mentre decine di telefonini riprendevano, minuto per minuto, quella lunga e infernale esecuzione.
«State sbagliando. Ve ne pentirete», era riuscito a gridare Djamel prima di soccombere, nel tardo pomeriggio dell'11 agosto. Forse. Ma forse non era solamente per denunciare l'accaduto che le immagini del linciaggio sono state fatte circolare per giorni sulle reti sociali, finché il padre della vittima, Noureddine Bensmail, non ha supplicato di cancellarle. Era stato lui, cresciuto nello spirito degli scout, a insegnare al figlio il valore dell'altruismo.
Djamil, detto Jimmy, aveva un'anima da artista, faceva il pittore e il musicista, ma coltivava anche i suoi ideali, compresi quelli politici. Militava nel movimento «Hirak», nato un paio d'anni fa e le cui manifestazioni hanno contribuito alla caduta del presidente Abdelaziz Bouteflika, nel febbraio 2019. Le proteste sono riprese nei mesi scorsi, con le richieste di un cambio di sistema del potere.
L'impegno politico ha alimentato qualche sospetto sulle vere ragioni per la quale la polizia avesse fermato Djamil, giunto in Cabilia dalla sua città natale, Miliana, nella provincia settentrionale di 'Ayn Defla.
Appena arrivato, quattro giorni prima di essere ucciso, Djamil aveva spiegato le ragioni della sua presenza nell'epicentro del disastro al microfono di Aures Tv, emittente online: «Sono venuto qui ieri notte, non ho dormito, per aiutare i miei fratelli Cabili che mi hanno dato una lezione di solidarietà e generosità In questa regione non c'è elettricità, né acqua, né gas, né pane ». Il video è ancora su Youtube.
Le immagini della sua fine sono servite perlomeno a identificare una sessantina di partecipanti al linciaggio, fra i quali tre donne, e l'autore della decapitazione del cadavere. Il primo ministro, Aimene Benabderrahmane, ha accusato genericamente mani criminali che «vogliono danneggiare l'Algeria», mentre il direttore della polizia ha cercato di giustificare la mancata reazione degli agenti: «Hanno ordine di non sparare per evitare degenerazioni».
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