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"HO CREATO 5.127 PROTOTIPI PRIMA DI FARE IL MIO PRIMO ASPIRAPOLVERE" - JAMES DYSON, FONDATORE DELL'AZIENDA CHE PROGETTA E PRODUCE ELETTRODOMESTICI E SECONDO UOMO PIÙ RICCO D'INGHILTERRA: "QUANDO HO INIZIATO, NESSUNO ERA INTERESSATO A SOSTENERMI. È UN PROBLEMA DELL’OCCIDENTE: SI PREFERISCE INVESTIRE NELLE COSE DI MODA. SIAMO STATI ENORMEMENTE COLPITI DALLA PENURIA DI SEMICONDUTTORI. ABBIAMO GODUTO DI UN’EPOCA D’ORO IN CUI NON PENSAVAMO DI VIVERE, MA INVECE LO ERA E PENSO CHE NON TORNERÀ…"

Paolo Ottolina per www.corriere.it

 

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Quando entriamo nel suo studio, sir James Dyson è chino su un grosso computer, penna digitale in mano: «Per disegnare è fantastico» ci dice, affabile . Siamo a Malmesbury, nel Wiltshire, a 150 chilometri da Londra. Cittadina e panorami molto Old England che non sfigurerebbero nell’incipit di un Harry Potter. Ma la sede di Dyson è tutt’altro. L’ufficio del fondatore è nell’avveniristica ex fabbrica a onde di vetro e metallo, progettata da Chris Wilkinson. Lì sotto c’è la sua Rolls Royce («La guida lui, gli piace molto» ci dice una dipendente). Accanto c’è un jet Harrier, una delle tante idee di design a cui ispirarsi, che punteggiano il campus dell’azienda.

 

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Qui si fa ricerca d’avanguardia sui prodotti che verranno (in un edificio blindatissimo si lavora sulle batterie a stato solido) ma ci sono anche i laboratori dove solerti ingegneri studiano la polvere o la fisica dei capelli per migliorare aspirapolveri, phon e piastre. All’ingresso ecco le sculture della moglie Deirdre, nella reception una collezione dei primissimi Dyson ciclonici senza sacco, il prodotto da cui tutto è partito. Nulla è casuale, tutto è un manifesto: design, tecnologia, futuro, ma anche ricerca del bello e testarda convinzione nelle proprie idee.

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Nell’autobiografia «Invention - La mia storia» lei racconta di 5.127 prototipi per arrivare al primo aspirapolvere ciclonico funzionante. Aveva ragione Edison quando diceva «il genio è 1% ispirazione e 99% traspirazione»?

«Ne ho parlato perché il pubblico non creda che un inventore sia un genio. Questo allontana le persone dall’essere ingegneri. Il successo non è genialità, è duro lavoro. È determinazione».

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Aveva fissato un limite? Si era detto, che so: «Arrivo a 6.000 prototipi e se non funziona smetto».

«No, non proprio. Ma affrontavo problemi complessi. Il primo: in quel momento i “cicloni” (la tecnologia alla base degli aspirapolvere senza filtro Dyso n, ndr) erano efficienti fino a 20 micron. Io dovevo farli funzionare fino a mezzo micron o meno. Il secondo: un ciclone convenzionale non era in grado di gestire tappeti, lanugine, capelli. E oggetti che vengono risucchiati: uno dei nostri prototipi era stato bloccato da un paio di meravigliose forbici d’epoca».

 

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Si considera più un inventore, un ingegnere, un designer, un venditore, un businessman?

«Non mi vergogno di avere fatto il venditore (con l’imbarcazione Sea Truck, a cui contribuì anche come designer, ndr). Mi ha insegnato che è molto importante parlare con i clienti, incontrare chi usa davvero i tuoi prodotti. Sono una persona affascinata dalla tecnologia e dai prodotti. Mi sono formato al Royal College of Art: se sono un professionista in qualcosa è il design, non l’ingegneria, benché sia un appassionato».

 

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C’è qualcosa che rimpiange del suo passato, qualcosa che avrebbe fatto in modo diverso?

«Tutto! Ma è proprio questo il punto: che non si fa sempre bene e si sarebbe potuto fare meglio, ma nel frattempo lo si è fatto. Nella vita il 50% delle tue decisioni probabilmente è sbagliato. Sono certo ci siano persone brillanti che fanno tutto bene la prima volta, ma non sono uno di loro».

 

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In Europa si crede abbastanza nelle idee innovative?

«Quando ho iniziato, nessuno in Gran Bretagna era interessato a sostenere qualcuno che faceva qualcosa di noioso come un aspirapolvere. È un problema dell’Occidente: si preferisce investire nelle cose di moda. Allora erano i computer, ora è il software. Mentre a me piacciono le cose prosaiche, come i motori elettrici o le batterie. E cercare di svilupparne di migliori piuttosto che fare cose popolari».

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Le Big Tech sono sotto accusa perché procedono sistematicamente ad acquisire le start-up più innovative. Lei ha avuto la tentazione di vendere tutto?

«C’è una tendenza piuttosto strana, a voler vendere molto in fretta. Io non ho mai avuto la tentazione, ma ci sono state offerte. Non ho rifiutato per questione di denaro ma perché ero davvero appassionato dei prodotti, non volevo allontanarmi dall’essere coinvolto nella tecnologia. È la mia passione, ma capisco che tanti vogliano sistemarsi rapidamente, ottenere sicurezza e denaro che non hanno mai avuto».

 

Qual è il segreto di un buon design?

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«La base è una tecnologia o un’idea che rendano un oggetto migliore in quello che deve fare. Deve essere economico, di buona qualità, durare a lungo. E ora anche usare meno materiali, meno risorse: questa è una dimensione che vent’anni fa non esisteva. Ma il design non deve mai essere trattato come qualcosa di separato dall’ingegneria, non è un materiale alla moda messo su un guscio vuoto (Dyson si alza e va a prendere una lampada da terra, è una Toio di Flos, ndr). Prendiamo questa lampada di Achille Castiglioni: è facile da capire nei suoi componenti essenziali, non è solo elegante, è un’idea meravigliosa».

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Come bilanciare l’intuito dell’inventore e quello che raccogliete nei focus group?

«Nei focus group le persone non ti danno risposte ma indizi e spesso quello che compreranno è l’opposto di quello che dicono. Se vuoi innovare, la gente ne sarà spaventata. Prendiamo il nostro bidone che raccoglie la polvere, che è trasparente. I consumatori e i primi rivenditori non lo volevano così. Ma a noi piaceva vedere lo sporco raccolto, dava un tocco divertente. E così abbiamo ignorato il pubblico. Ci sono momenti in cui devi essere coraggioso, alla gente piace essere sorpresa e scioccata».

 

Quali sono le innovazioni di cui è più orgoglioso?

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«È un po’ come sentirsi chiedere qual è il tuo figlio preferito. Li amo tutti per ragioni differenti. Vale anche per quei prodotti che non sono stati vincenti, come la nostra lavatrice (da tempo ritirata dai negozi, ndr). Non credo che il successo sia necessariamente un parametro con cui giudicare. Ha risolto un problema interessante? Ha portato un progresso? Queste sono le cose che contano».

 

A proposito di insuccessi, che cosa avete imparato dal progetto di auto elettrica che è stato chiuso dopo aver investito molte energie e denaro?

«Siamo partiti perché abbiamo motori elettrici molto avanzati e questo era ed è un aspetto fondamentale in un’auto. Nella nostra esperienza ci siamo divertiti enormemente e molte delle persone che sono venute da noi per aiutarci con l’auto sono rimaste, come il nostro Ceo Roland Krueger e altre persone meravigliose: hanno molto più valore dei soldi che abbiamo perso».

 

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Nell’autobiografia parla con grande amore e ammirazione di sua moglie Deirdre e dei suoi figli Emily, Jake e Sam. Come si bilanciano lavoro e vita privata?

«Non molto bene. Soprattutto quando i bambini erano piccoli viaggiavo molto, il che non è un bene. Sono in grado di staccare, soprattutto nei weekend, ma quando si avvia un business è davvero qualcosa che ti impegna sette giorni alla settimana, 24 ore al giorno, per i primi anni. Era qualcosa che ti faceva perdere il sonno. E ora mio figlio Jake è parte dell’azienda, ha appena curato il nuovo Dyson Zone (un oggetto che mette insieme un paio di cuffie e un purificatore d’aria indossabile, ndr). Sam è coinvolto in ruoli non esecutivi. È un’azienda familiare ed è una fortuna».

 

Che oggetti tecnologici l’hanno colpita di più di recente?

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«Questo pc che ho sulla scrivania (un Microsoft Surface Studio, ndr): ci si può disegnare e altri possono unirsi al design e tutti possono vedere cosa stiamo disegnando. Ognuno risulta con un colore diverso e così tutti possono vedere che una certa stupida idea è mia. Ci ha permesso di superare i lockdown per il Covid perché abbiamo ingegneri nelle Filippine, a Singapore, in Malesia, a Oxford, a Bristol e alcuni in Cina. Ma parlando di oggetti più semplici, ci sono gli spazzolini da denti elettrici, soprattutto per i bambini: obbligano a fare un lavoro di pulizia accurato e delicato. E poi il motore jet degli aerei. Per quello ne abbiamo uno qui bene in vista nel campus».

 

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L’attuale scenario di guerra ha portato molti analisti a parlare dell’inizio della fine della globalizzazione. Cosa si aspetta per il futuro?

«Non possiamo più dipendere da un solo Paese, abbiamo bisogno di forniture molto più diffuse per evitare disastri politici o naturali, e tutti i tipi di rischi. Io spero che il nazionalismo non prevalga e che tutti noi restiamo impegnati su uno scenario globale».

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Lei ha sostenuto la Brexit: ha portato i benefici che si attendeva per un’azienda britannica come la sua?

«Brexit non significa non amare l’Europa. Si tratta avere la nostra sovranità e non stare nella “Fortezza Europa” ma piuttosto di avere libero scambio con tutti. L’Europa è un mercato unico, ma il resto del mondo è un mercato quattro, cinque, sei volte più grande. Ed è una cultura differente rispetto a quella in cui credo: non credo nei grandi conglomerati. Credo nell’individualismo e suppongo che un ottimo esempio sia lo sviluppo del vaccino che la Gran Bretagna ha dovuto fare da sola, perché non faceva parte dell’Europa e l’ha fatto più velocemente e, se non vi spiace sentirlo dire, meglio dell’Europa. Se sei indipendente, cambia il modo in cui pensi e cambia il tuo spirito. E anche se la storia britannica è una storia europea, è quasi più naturale per la Gran Bretagna essere globale piuttosto che europea, perché storicamente ha legami con Australia, Canada, Singapore, Hong, Kong e così via».

 

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Quanto durerà la carenza di componenti e come l’avete gestita in Dyson?

«Siamo stati enormemente colpiti dalla penuria di semiconduttori e dal Covid. Spero che la situazione migliorerà ma forse un altro disastro arriverà. Abbiamo goduto di un’epoca d’oro in cui non pensavamo di vivere, ma invece lo era e penso che non tornerà».

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Perché una società che produce aspirapolvere ha creato un’università all’interno della sua sede, da cui escono ingegneri laureati?

«Tutto è iniziato perché abbiamo difficoltà a trovare abbastanza ingegneri. Jo Johnson, il fratello di Boris (che in quel momento era il ministro dell’Università e della Ricerca), mi disse: “Beh, avviate una vostra università”. Ho pensato che fosse una buona idea. E c’è anche un problema terribile di indebitamento degli studenti in Inghilterra, per cifre fino a 90 mila euro e oltre. Noi abbiamo un modello alternativo: li paghiamo. Lavorano con noi tre giorni la settimana e due giorni studiano, per 47 settimane l’anno, accanto a ricercatori e ingegneri di livello mondiale. Il 44% sono studentesse, contro una media nazionale del 20%. Non sono obbligati a restare a lavorare con noi, ma molti decidono di farlo».

 

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Come sceglie le persone che lavorano per lei e con lei?

«Cerchiamo persone curiose, che vogliono imparare ogni giorno. Persone che probabilmente sono leggermente non convenzionali, inventive, che vogliono essere pionieri. Cioè fare qualcosa in modo diverso, non solo copiare quello che è stato fatto in passato».

 

Qui al campus di Dyson abbiamo assaggiato delle ottime fragole, le produce la sua altra azienda, Dyson Farming, che ha fondato alcuni anni fa: cosa c’entrano agricoltura e tecnologia?

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Ho voluto entrare in questo settore perché sono davvero appassionato di agricoltura. Mi sono reso conto che ci sarebbe voluto del tempo prima di capire cosa potevamo fare per rendere l’agricoltura più produttiva e redditizia. Renderla redditizia sarà già un buon inizio, stiamo iniziando a capire come fare e ci stiamo formando. Parlare di una divisione agritech è forse una parola un po’ grossa ma ci stiamo concentrando in particolare sulle fragole, per imparare a raccoglierle con i robot: sarà molto importante. Ma a parte quello vogliamo fare cibo migliore, fare il bene del suolo, avere un habitat naturale e usare la natura per lavorare meglio con le nostre fattorie.

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