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DAGOREPORT - BENVENUTI AL GRANDE RITORNO DELLA SINISTRA DI TAFAZZI! NON CI VOLEVA L’ACUME DI…
Manuela Galletta per “Metropolis Napoli”
Processi lenti, lentissimi. Ne beneficiano i boss (e non solo), ne escono sconfitti i cittadini e pure chi (forze dell’ordine e magistratura inquirente) ha trascorso giorno e notte a confezionare le indagini. La storia dei D’Amico di San Giovanni a Teduccio è, paradossalmente, il caso meno eclatante di Giustizia lumaca: è trascorso un anno dalla requisitoria del pubblico ministero e la sentenza del processo di primo grado, salvo intoppi, dovrebbe arrivare a settembre.
Pochi giorni fa il Tribunale ha motivato il lungo rinvio dell’udienza con le priorità processuali da affrontare (i D’Amico sono liberi su questo procedimento e va data la precedenza alle cause con imputati detenuti o a quelle relative a reati contro la pubblica amministrazioni che hanno tempi di prescrizione più corti). Ma c’è chi, a Napoli, aspetta che la Giustizia si ricordi di loro da molto più tempo.
È il caso di Antonio Mennetta, boss della Vanella Grassi di Secondigliano, e di cinque esponenti degli Abbinante del rione Monterosa di Scampia: tutti nomi legati a recenti faide di camorra e a lunghe scie di sangue. È il caso, ancora, degli Stabile di Miano, che sino al Duemila erano un pericoloso clan della camorra mentre oggi non li ricorda quasi più nessuno se non gli addetti ai lavori. Forse.
IL CASO MENNETTA - Nato e cresciuto alla corte dei Di Lauro, Antonio Mennetta – 31 anni - ha conquistato i gradi del boss intorno al 2010 quando ha riabbracciato la libertà per decorrenza dei termini di custodia cautelare. Da allora, raccontano oggi numerosi collaboratori di giustizia, Mennetta ha trascinato il suo gruppo, la Vanella Grassi, fuori dalla cerchia degli Amato-Pagano ed ha inaugurato la guerra contro gli Abete-Abbinante-Notturno (pure loro distaccatasi dagli Amato-Pagano) per il controllo delle piazze di spaccio tra Scampia e Secondigliano, una guerra che il 15 ottobre del 2012 ha portato alla morte di un innocente, il 31enne di Cardito Pasquale Romano. E pensare che la Giustizia avrebbe potuto impedire la sua ascesa criminale.
A metà del Duemila Mennetta venne arrestato con l’accusa di aver firmato uno degli agguati che scandirono la faida tra i Di Lauro e gli scissionisti scoppiata alla fine del 2004: l’omicidio di Biagio Migliaccio, ammazzato nell’autosalone del padre a Mugnano il 20 novembre del 2004 (Migliaccio pagò con la vita l’essere parente del ras Giacomo, tra i promotori della ‘ribellione’). Il 27 aprile del 2007 Mennetta fu condannato in primo grado alla pena dell’ergastolo come chiedeva la procura.
Un anno dopo (15 dicembre 2008) il colpo di scena: i giudici della quarta sezione della Corte d’Assise d’Appello di Napoli ribaltarono il verdetto e stabilirono l’assoluzione dell’imputato restituendogli la libertà. La procura generale impugnò la sentenza e propose ricorso per Cassazione. Il 20 luglio del 2009 la Corte Suprema si pronunciò sul caso e annullò la valutazione di secondo grado disponendo la celebrazione di un nuovo processo d’Appello.
A questo punto la macchina giudiziaria va in tilt: da allora sono trascorsi sette anni e quel processo non è mai stato fissato. Con buona pace di Mennetta che ha potuto agire indisturbato sino a quando nel 2013 non è tornato in prigione per via di nuove accuse di camorra e di omicidio. Oggi Mennetta ha sulle spalle una condanna per associazione di stampo mafioso e due condanne all’ergastolo, una di secondo grado per la morte di Antonello Faiello (il luogotenente del boss ‘fantasma’ Marco Di Lauro assassinato nell’aprile del 2013) e una rimediata in primo grado per l’agguato a Fortunato Scognamiglio (ammazzato a Melito nel 2012). Questi reati si sono tradotti in un verdetto di colpevolezza sono tutti successivi a quella sentenza della Cassazione che disponeva la ripetizione (mai avvenuta) del processo per l’omicidio di Biagio Migliaccio.
IL CASO ABBINANTE - La Giustizia è rimasta a guardare anche nel caso di cinque esponenti del clan Abbinante, prima al soldo dei Di Lauro e poi tra i promotori della famosa scissione registratasi alla fine del 2004 con il duplice omicidio di Fulvio Montanino (braccio destro del boss Cosimo Di Lauro) e dello zio Claudio Salierno. Il 27 ottobre del 2007 a Calvizzano veniva ucciso Giovanni Moccia, mentre Giovanni Piana, benché ferito, riuscì a salvarsi e pochi giorni dopo passò a collaborare con la giustizia.
Poche settimane più tardi, per quell’agguato, scattarono gli arresti del boss Guido Abbinante, Paolo Ciprio, Salvatore Baldassarre, Giovanni Esposito ‘o muort e Giovanni Carriello. Erano tutti accusati da Giovanni Piana e quelle accuse spinsero i giudici della quarta sezione della Corte d’Assise di Napoli (allora presieduta da Giustino Gatti) a disporre la condanna all’ergastolo degli imputati. Era il 9 giugno del 2009. Il 24 marzo del 2011 il ribaltamento di fronte: i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Napoli (presidente Pietro Lignola) ‘strapparono’ la sentenza di condanna e mandarono assolti tutti gli imputati, che – ad eccezione di Abbinante (detenuto per traffico di droga) – tornarono pure in libertà. Anche in questo caso la procura generale presentò ricorso. Anche in questo caso la Cassazione dispose un nuovo processo ed anche in questo caso, come per Mennetta, il nuovo processo non è mai stato fissato.
Le conseguenze di questo inspiegabile immobilismo sono negli atti giudiziari: il 15 ottobre del 2012 Salvatore Baldassarre ha ucciso Pasquale Romano, scambiandolo per un camorrista. Gli scaricò contro ben 21 colpi di pistola pensando di avere davanti a sé Domenico Gargiulo detto ‘sicc penniell’, vedetta armata della Vanella Grassi, invece Lino Romano era un bravo ragazzo che quella maledetta sera era andato a far visita alla fidanzata.
Giovanni Esposito ‘o muort, invece, avrebbe assunto la guida del clan finendo nel mirino della Vanella Grassi: nel luglio del 2012 è rimasto vittima di un agguato. Giovanni Carriello è tornato in galera nel 2013 per associazione di stampo mafioso ed è stato condannato per quest’accusa sia in primo che in secondo grado per effetto di una nuova inchiesta. Il processo sull’omicidio Moccia e sul tentato omicidio Piana, intanto, aspetta ancora di essere celebrato.
IL CASO STABILE – Aspettano addirittura la prima sentenza gli Stabile di Miano, che un tempo erano un temuto clan di Miano e che oggi sono spariti dalla scena malavitosa. Nel 2000 fu stabilito il rinvio a giudizio di 18 persone per i reati – contestati a vario titolo – di associazione di stampo mafioso e traffico di droga. Ebbene, il dibattimento non è mai giunto al capolinea. Difficile a crederci, eppure è successo.
Il processo è stato paralizzato da un vorticoso cambio di colleghi giudicanti e da lunghi rinvii d’udienza perché – come nel caso dei D’Amico di San Giovanni – non c’era urgenza nel trattare la causa essendo tutti gli imputati liberi (furono scarcerati nel 2002 per decorrenza dei termini di custodia cautelare).
Tra un rinvio e un altro un imputato è morto e a miglior vita sono passati alcuni testi di lista della difesa. La girandola di intoppi sembrava essersi spezzata nel marzo del 2014 quando il pubblico ministero antimafia Vincenza Marra (che ha ereditato il fascicolo) chiese la condanna dei 17 imputati ‘sopravvissuti’. Sembrava, perché da allora si attende ancora che tutti gli avvocati degli accusati concludano. Ci vorrà tempo. Chissà ancora quanto.
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