DAGOREPORT - DAVVERO “I AM GIORGIA” SI È SOBBARCATA 20 ORE DI VIAGGIO PER UNA CENA A MAR-A-LAGO,…
Ettore Livini per “la Repubblica”
i profughi pregano per bruxelles
«Benvenuto in Europa. Si tolga le stringhe delle scarpe e ce le consegni. Ci dia anche cintura e telefonino, per ora teniamo tutto noi. Declini le generalità, prenda le impronte digitali e poi si accomodi là».
Dentro una baracca di poche decine di metri quadri, chiusa a chiave dall’esterno, assieme ad altri trenta compagni di sventura (compresa una anziana in carrozzella), circondata da reti metalliche e filo spinato e guardata a vista dalla polizia 24 ore su 24. Qassem, siriano di 39 anni scappato due settimane fa da Homs, si aspettava un’accoglienza diversa.
«È Lesbo, vero? Ce l’ho fatta! » ha sussurrato all’alba sul molo di Mytilene a volontari e giornalisti quando è sbarcato in tuta rossa e infradito dalla guardacoste Andromeda che l’aveva intercettato su un gommone a trecento metri dalla costa. «Vado a Moria, faccio i documenti e poi parto per Atene», ha salutato con un sorriso mentre la polizia lo caricava a forza sul pullman.
Nessuno, purtroppo, ha fatto in tempo ad aggiornarlo sulle novità. Ue e Turchia hanno stretto un patto di ferro per alzare in questo braccio d’Egeo un muro anti-migranti. Lesbo, l’isola candidata al Nobel della pace, il paradiso dei volontari lodato da Angelina Jolie, è diventata un inferno da cui persino Unhcr e Medici senza frontiere (Msf) preferiscono scappare.
E il campo di Moria (un «centro d’accoglienza chiuso», l’ha ribattezzato con un ossimoro involontario la Ue) «si è trasformato in una prigione per mille persone - dicono le due organizzazioni – dove noi da domenica non lavoriamo più».
«L’accordo con Ankara – ha messo nero su bianco Msf - potrebbe dar luogo a deportazioni ingiuste e disumane e noi non vogliamo esserne complici». E Qassem, che l’ha capito, ha affidato il racconto della sua delusione e del suo brusco impatto con l’Europa a un foglietto in stampatello girato a uno dei pochi osservatori umanitari rimasti nella mini- Guantanamo della Ue.
«Qui il mondo è cambiato in 72 ore – spiega sconsolato Michele Telaro, responsabile dei 180 uomini di Msf al lavoro sull’isola - Fino a domenica scorsa il campo era solo una tappa lungo il viaggio della speranza dei migranti. Si arrivava, si affrontavano le procedure di riconoscimento e si otteneva il documento provvisorio con cui, pagando i 50 euro del traghetto per Atene, si continuava la fuga da guerra e miseria».
Ora Moria è diventata il capolinea di questo esodo biblico (un milione gli arrivi a Lesbo da inizio 2015, 4.219 i morti in mare). I 5mila profughi bloccati qui prima del D-Day del 20 marzo, il giorno in cui è entrato in vigore il patto con Ankara, sono stati trasferiti ad Atene. I mille arrivati da allora sono finiti sotto chiave nelle baracche del campo.
«Spaventati e senza certezze sul futuro – dice Telaro - visto che nessuno qui, nemmeno noi e i legali, ha capito cosa prevede l’intesa con Erdogan». Unica certezza: il 4 aprile partiranno i respingimenti. «E se mi mettono su una nave per rimandarmi in Turchia, giuro che mi butto in mare», dice Yassim Al-Kufhir, ingegnere pakistano ospite di Afghan Hill, il campo gestito dai volontari a due passi Moria.
kos nuova destinazione dei profughi
Spiros Gallinos, sindaco di Mytilene, è su tutte le furie: «È una situazione kafkiana – dice allargando le braccia - L’Europa ha fatto melina per un anno e mezzo, nascondendo la testa sotto la sabbia. Poi ci ha imposto in 24 ore una decisione senza istruzioni per l’uso».
L’assurdo, aggiunge in camera caritatis, è che se parli con Bruxelles sono tutti contenti del successo dell’intesa. Chi puntava a fermare gli sbarchi - fregandosene dei dettagli umanitari – può in effetti fregarsi le mani. Salvagenti arancioni, casse d’acqua e coperte termiche ammucchiate sotto le tamerici della spiaggia a sud dell’aeroporto sono inutilizzati da tre giorni.
«Fino a domenica qui sbarcavano almeno sei gommoni a notte – racconta Josè Alvarez, pompiere di Siviglia della Ong Proem-Aid che ha fatto l’alba scrutando l’orizzonte con il cannocchiale - Ora, zero. I gatti sono partiti a caccia dei topi».
Tradotto: i guardiacoste greci e turchi e le navi Frontex – latitanti negli ultimi due anni – si sono svegliati e hanno alzato un muro invalicabile. Chi prova a passare viene bloccato e riportato a Dikili sull’altra sponda o nella prigione di Moria.
Isaac Perry, 23enne studente australiano che ha interrotto il sabbatico in Italia per venire a distribuire cibo ai profughi con la Starfish Foundation, ha una sua idea. «Le navi schierate, le incertezze sulle regole per i respingimenti e la metamorfosi di Moria hanno un senso chiaro: spaventare chi vuol tentare la sorte e sfidare lo stesso l’Egeo.
I migranti leggono Facebook, il tam-tam funziona. E se non ne arrivano più è colpa (o merito, dipende da come la vedi) di questo terrorismo mediatico». Il risultato però «è che a Lesbo, dove fino a pochi giorni fa ero la persona più felice del mondo, adesso mi sembra di vivere un incubo».
Il suo timore è quello di tutti. Senza regole scritte e con l’esame delle richieste d’asilo ridotto a una farsa («mancano norme, avvocati e interpreti» dice Telaro), i respingimenti in Turchia rischiano di diventare una tragedia umanitaria per tutti, siriani compresi.
«Ogni essere umano ha una sua storia – dice Lucia Mayer, 28enne infermiera di Zurigo arrivata qui con papà, mamma e marito - Al pronto soccorso di Afghan Hill ho curata decine di persone con il corpo coperto di cicatrici per la sola colpa di essere cristiani. Come si fa a rimandarli nell’inferno da cui sono venuti? E come si fa a sostenere che la Turchia è un paese sicuro?». Domande che la Ue - alle prese con bombe, populismi e un pugno di elezioni delicatissime - preferisce forse non farsi.
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