DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Andrea Tarquini per “la Repubblica”
«Allora avevo ventun anni, vedevo in Hitler il salvatore della Patria, nelle SS mi sentivo parte della casta scelta della vittoria. Poi non ebbi mai pace. Ora capisco la mia piena colpevolezza morale. A voi sopravvissuti e parenti delle vittime qui in aula chiedo solo perdono; se devo essere punito, giudichi Lei, Vostro Onore».
Voce debole ma ferma, quasi infreddolito nel gilet beige sulla camicia biancastra a righe, Oskar Gröning pronuncia il suo mea culpa. È cominciato così, ieri mattina alle 9 nella Ritterakademie, l’antica accademia dei cavalieri di Lüneburg, il processo al 93enne ex contabile di Auschwitz, il cassiere dell’Olocausto.
È forse l’ultimo grande processo a un criminale nazista, e appare diverso da tutti gli altri: l’ex timido Unterscharfuehrer delle Waffen-SS per primo non nega, anzi riconosce tutto. Guarda negli occhi i “suoi” sopravvissuti alla Shoah e i parenti delle “sue” vittime, ammette, narra una vita di vergogna. La banalità del Male che Hannah Arendt raccontò col suo reporting del processo all’architetto del genocidio Adolf Eichmann qui acquista un altro volto, tardiva resa dei conti.
È entrato lento e curvo sorreggendosi al deambulatore, si è seduto alla sbarra inforcando gli occhiali, l’ex Unterscharführer pronto a finire decenni di vita postbellica tranquilla con una condanna da tre a 15 anni. «Vostro Onore, signore e signori ex internati, e Lei avvocato Walther loro legale, scusate le frasi lente, è l’età, ma lasciatemi dire». Ha parlato per tre quarti d’ora, poi per un’ora ha risposto alle pazienti domande del giovane giudice Franz Kompisch, quasi in un j’accuse contro se stesso.
Complicità in almeno 300 mila omicidi, tanti furono gli ebrei ungheresi consegnati al Reich e mandati in corsa alle “docce” e poi ai forni. Non sparò mai, non alzò mai la mano contro una vittime, l’ex Unterscharfuehrer.
Ma da buon ex funzionario di una Sparkasse, teneva i conti di tutto: «marchi, zloty, lire, fiorini, migliaia di dollari, centinaia di sterline… toccava a me registrare ogni contante sequestrato a chi veniva scaricato dai treni, calcolare il tasso di cambio, e versare tutto a Berlino». Dunque complicità, dicono i capi d’accusa, nel furto di massa che aiutò il finanziamento della Shoah.
Ivan Demjanjuk negò tutto fino alla condanna a Monaco e dopo, Sàndòr Képiro massacratore di civili in Jugoslavia si disse ligio al dovere, e nella Budapest di Orbàn fu assolto ed ebbe funerali da eroe. Herr Gröning no, conferma tutto. «Sì, Signor presidente della Corte — risponde al giudice Kompisch — entrai volontario nelle SS. Papà era nazionalista convinto, membro degli Stahlhelm; io decisi di lasciare la carriera in banca, volli entrare nelle truppe scelte della riscossa tedesca. Sapete, Hitler ci esaltò: via di colpo i 5 milioni di disoccupati, ordine e lavoro, poi i polacchi sgominati in 18 giorni, i francesi in ancor meno».
Coscienza odierna del Male e fierezze del passato coesistono nel suo animo di reo confesso, mentre quei sessanta sopravvissuti e familiari di vittime, una Schindler List senza salvatori, lo ascoltano e guardano sgomenti. «Forse gli stiamo chiedendo troppo — sussurra Eva Kòr, una di loro — Certo, è colpevole, lo sa e lo dice, ma si vede che ne sof- fre, adesso è lui l’anima dilaniata».
Fuori dalla Ritterakademie, arriva all’improvviso un gruppetto di neonazisti e grida «Vergogna, giustizia serva di angloamericani ed ebrei, no alla vendetta dei vincitori, l’Olocausto è un’invenzione». La polizia li respinge in corsa, giovani manifestanti democratici festeggiano gli agenti sventolando una bandiera israeliana.
E quando capì a cosa avrebbe partecipato?, incalza calmo in aula il giudice Kompisch. «Vede, Vostro Onore, ci fecero firmare una dichiarazione segreta di fedeltà assoluta. Ci dissero “compirete azioni non eroiche né gloriose, ma i nemici del popolo tedesco vanno annientati”… ci annunciarono all’ultimo la partenza per Auschwitz, sapevo dov’era ma non cosa fosse. Divenni il contabile, dal primo giorno».
Innocenza apparente, subito perduta nel Luogo del Male assoluto. «”Qui togliamo di mezzo i nemici”, dissero gli anziani a noi nuove leve la prima sera, dopo molta vodka. Chiesi loro che vuol dire, “che vuoi che voglia dire?”, mi risposero. Un mondo cominciò a crollarmi dentro, ma non reagii». Senso del dovere cieco, «fino al giorno in cui vidi una mesta fila di gente in marcia, mi sembrarono tutti ebrei.
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“Mettiti la maschera antigas”, mi disse il mio superiore; furono spinti in un locale con scritto “docce”, l’ufficiale sprangò la porta, udii urla sempre più forti, poi il silenzio». Silenzio dell’imputato, un sospiro, poi un’altra confessione: «Alcuni dei presenti, lo so, mi riconoscono: mi videro alla rampa. Là un giorno, davanti ai miei occhi, un soldato delle SS strappò dalle braccia materne un neonato che piangeva, e lo sbatté a morte contro le pareti d’un vagone. Lo uccise così, capite, nemmeno con un colpo di fucile!».
«Capii allora di aver scelto la parte sbagliata nell’inferno, chiesi di essere trasferito al fronte, ma invano», continua Gröning. Richiesta respinta, allora restò docile contabile. «Valute d’ogni parte d’Europa, persino dollari Usa probabilmente falsi, sterline… inviavo tutto a Berlino». Alla Direzione economica delle SS a Steglitz, quartier generale del management dell’Olocausto. E non si domandò mai, chiede il giudice, a chi appartenevano tutti quei soldi? «Al Reich, perché ormai agli ebrei non servivano più. Così pensavo allora, ecco la mia colpa».
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