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IL GIALLO DI BREMBATE - I PM DEVONO DIMOSTRARE CHE YARA E BOSSETTI SI CONOSCEVANO - L’ACCUSATO: “SE FOSSI STATO IO, MI SAREI GIÀ UCCISO. YARA NON L’HO MAI INCONTRATA” - L’ESAME DEL SANGUE SUI LEGGINS E’ STATO FATTO QUATTRO VOLTE: E’ DI BOSSETTI

massimo giuseppe bossetti il presunto killer di yara gambirasiomassimo giuseppe bossetti il presunto killer di yara gambirasio

1 - “MI HANNO DATO DEL MOSTRO MA NON VADO CON LE BAMBINE FOSSI STATO IO MI SAREI UCCISO”

Paolo Berizzi per “la Repubblica”

 

Eccolo il racconto di Bossetti. «Sono tranquillo e sereno. Adesso sono il mostro della porta accanto, ma ho la coscienza a posto. Verrà dimostrata la mia innocenza. Se fossi stato io ad ammazzare Yara, mi sarei già ucciso». Le 10.15 di venerdì. Infermeria del Gleno, il carcere di Bergamo. La stanza medica è in fondo al corridoio che parte dalla rotonda, come è chiamato lo snodo da cui si raggiungono le sezioni del penitenziario. Sono passate 24 ore dall’udienza di convalida del fermo del presunto killer di Brembate. Ancora piantonato nella sua cella, Bossetti si sottopone alla visita medica di routine. È la quinta da quando è dietro le sbarre.

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L’ex Ignoto1 affronta un lungo colloquio con lo psicologo che fa parte dell’équipe coordinata da Franco Berté, dirigente medico del carcere di Bergamo. Prima di riportare il contenuto della conversazione con Bossetti, è opportuno sottolineare un dato clinico: cristallizzato in un referto, e per nulla secondario.

 

L’uomo accusato di avere massacrato Yara Gambirasio e di averla «abbandonata agonizzante in un campo isolato dopo avere operato sevizie e agito con crudeltà », è descritto dai medici che lo seguono al Gleno con queste parole: una «persona equilibrata»; un detenuto in «stato integro», che gode di un «buon equilibrio psicofisico» e «presenta un sufficiente grado di contenimento». Questo è il Massimo Giuseppe Bossetti ingrandito dalla lente di psicologi e psichiatri. Che, con una visita specialistica, hanno voluto valutare le sue condizioni e il grado di «inserimento ambientale» in carcere.

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«Chiaro». «Lineare». «Disarmante ». Viene riferito in questi termini, a “Repubblica”, l’atteggiamento del muratore quarantaquattrenne. «Non sono io il colpevole, e questa consapevolezza mi fa sentire a posto con la mia coscienza — ha spiegato Bossetti in infermeria — Sono qui dentro, in carcere. Ovvio che vorrei, anzi dovrei, non starci: perché non c’entro niente con l’omicidio di quella povera ragazzina. Ma sono sicuro che le indagini andranno avanti, e dimostreranno la mia innocenza».

 

È questo il punto di equilibrio del grande accusato? Possibile che tra le pieghe della sua mente non vi sia neanche un filo di smarrimento o di umana angoscia? «Se fossi stato io a fare una cosa del genere, mi sarei già ucciso», ha risposto Bossetti al medico che gli chiedeva come si sentisse dopo la vicenda che, colpevole o meno, lo ha travolto. Le parole del detenuto non hanno evidenziato «nessuna traccia di pulsioni autolesioniste», dice lo specialista. Bossetti — difeso dall’avvocato Silvia Gazzetti — si sente innocente e lo dice con forza. Al punto che per un attimo si spinge a affermare: «Non voglio nemmeno pensare a un processo. Io non ho ucciso Yara, non l’ho mai incontrata né conosciuta: l’ho vista solo in tv».

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Dichiarazioni, queste, già consegnate al gip durante l’udienza di giovedì. Udienza sul cui esito, ora, si interroga lo stesso accusato. «Se per loro sono io l’assassino perché non hanno convalidato il fermo?». In infermeria Bossetti ha offerto argomenti per spiegare il suo stato d’animo. Sempre in difesa. Del ritrovamento del suo Dna aveva già detto di essere sorpreso e di non sapere come sia possibile che sia stato trovato sui leggins e sugli slip di Yara.

 

Ora si spinge oltre. «È una delle tante stranezze di questa storia. La più grande. Ma sono sereno perché sono sicuro che la mia estraneità verrà presto a galla».

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Agli psicologi interessa altro. Per esempio capire anche se, come e quanto l’impatto della macchina mediatica abbia influito negli ultimi giorni sui pensieri e i meccanismi cognitivi di Bossetti. Lui ha risposto così: «Adesso per tutti sono il mostro cattivo. Ma non è così e la verità verrà fuori. Non sono un criminale, non sono un maniaco, non sono uno che va dietro alle ragazzine.

 

 Chi mi conosce, i miei familiari, mia madre, mia sorella, i miei figli, ma anche i miei amici e i miei colleghi, sanno benissimo che non potrei mai commettere un crimine come questo». Basta questa consapevolezza esibita per tenersi su e non precipitare in uno stato d’ansia? «Se dentro di me non sapessi di essere innocente probabilmente adesso mi troverei in uno stato di depressione devastante. Mi sarei già ucciso. Trovo forza nel sapere che le cose non stanno come pensano i magistrati e le forze dell’ordine».

 

C’è un aspetto che ha colpito Bossetti. E lo ha ammesso lui stesso davanti ai medici. È lo spaccato collaterale di questa storiaccia che ha sconvolto la vita di due, anzi tre famiglie: prima i Gambirasio, poi i Guerinoni, adesso anche i familiari di Bossetti, a partire da sua sorella gemella Letizia Laura (ha scoperto assieme al fratello di non essere figlia di quello che credeva essere il suo padre naturale, Giovanni Bossetti).

 

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«Scoprire dai giornali e dalle televisioni (Bossetti ha la tv in cella, ndr) che il mio padre naturale è un altro, mi ha provocato un forte turbamento. È una cosa che elaborerò col tempo ma che, indipendentemente da come sono andare davvero le cose, non cambierà il mio rapporto e il mio sentimento di amore e di affetto per mia madre. So anche che i miei familiari continueranno a starmi vicino e a sostenere la mia innocenza».

 

Tra gli accertamenti clinici, i colloqui con lo psicologo sono considerati uno dei momenti più significativi per «l’adattamento del detenuto e la valutazione della sua situazione emotiva. Specie se appena arrivato e soprattutto se in condizione di isolamento ».

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Così ritengono il direttore del carcere Antonino Porcino e la responsabile dell’area trattamentale Anna Maioli. Lui, Bossetti, dopo il quinto giorno dietro le sbarre, si sente così: «Ho trovato umanità da parte di tutte le persone con le quali sono entrato in contatto. In carcere non mi sento trattato da mostro. Sono entrato con un’accusa, ma questo non significa che sono un assassino».

 

2 - QUATTRO TEST GENETICI DIVERSI PER INCHIODARE BOSSETTI

Paolo Colonnello per “la Stampa”

 

Su una cosa sono tutti d’accordo: l’inchiesta per accertare la colpevolezza o meno di Massimo Bossetti nell’omicidio di Yara Gambirasio è appena cominciata. Ora che il proprietario del materiale organico ritrovato sui leggins della tredicenne pare certo (la probabilità che non sia lui è «una su 14 miliardi»), gli investigatori si concentrano su un unico obiettivo: trovare il collegamento tra Yara e il muratore di Mapello che dimostri che i due si conoscevano.

 

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O, almeno, il punto di contatto che avrebbe consentito al suo assassino di avvicinarla la sera del 26 novembre 2010 per farla salire sul suo furgone Iveco cassonato azzurro (e non bianco come si era scritto finora) senza costringerla. «Il puzzle - dice il pm Letizia Ruggeri - è quasi completo». Tanto che la Procura sta valutando se chiedere il giudizio immediato. 
Gli indizi contro Bossetti

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C’è il Dna, tratto da un liquido che per esclusione (non è sperma, non è saliva, non sono lacrime) è sangue, trovato in quantità considerevole sui leggigns e sul risvolto della mutandine di Yara. È considerato un campione «di straordinaria qualità», tanto che l’esame è stato ripetuto 4 volte in centri diversi (Ris, Polizia scientifica, Università di Pavia e di Milano) dando sempre gli stessi risultati fino a essere ritenuto «prova schiacciante»;

 

c’è la polvere di calcina trovata addosso a Yara compatibile con il lavoro da muratore di Bossetti; c’è l’aggancio della sua cella telefonica vicino alla palestra di Brembate quando telefona, alle 17,45, al cognato Osvaldo Mazzoleni; inoltre Bossetti ammette di essere passato quella sera davanti alla palestra dopo essere uscito dal cantiere del cognato a Palazzago; infine c’è la sua ossessiva frequentazione nel centro estetico che si trova a 150 metri dalla casa di Yara. «Ignoto 1», insomma, non era estraneo alla vita e ai luoghi di Yara. Su «miliardi e miliardi» di possibilità poteva essere chiunque altro. Invece è il muratore Massimo Bossetti, 44 anni, padre e marito esemplare. 

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Peccato lui si proclami innocente. E sebbene la madre di Bossetti sostenga che la scienza del Dna non sia scienza esatta, si scopre che nemmeno lei è «casualmente» una conoscente, come ha sostenuto nell’interrogatorio, di quel Giuseppe Guerinoni, considerato il padre di «Ignoto 1». Per anni è stata la vicina di casa dell’autista di bus morto nel ’99 con cui avrebbe avuto una relazione clandestina. Com’è possibile che un’indagine genetica su 18 mila persone abbia alla fine fotografato proprio la presunta relazione avuta da Guerinoni con la vicina di casa Ester Arzuffi? Coincidenze e indizi pullulano in questo caso. La verità è che, risalendo a ritroso l’inchiesta, tutti i tasselli sembrano andare al loro posto. 

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Gli elementi da accertare
Però manca ancora qualcosa. Ad esempio, l’ipotesi che Bossetti abbia avvicinato senza violenza Yara si scontra con la testimonianza del fratellino che il 19 luglio 2012 raccontò che Yara aveva «paura di un signore in macchina che andava piano e la guardava male quando lei andava in palestra e tornava a casa». Un signore «che aveva una barbettina come fosse appena tagliata» e «una macchina grigia lunga». Indizi che, a parte qualche discrasia come la sua descrizione («era cicciottello») sembrano individuare Bossetti. Yara, per il fratellino, «era infastidita dalla presenza di un uomo che la guardava in chiesa» e che lui avrebbe riconosciuto un paio di volte sempre in chiesa. Lo stesso uomo? Non si sa. Ma se Yara aveva paura di quest’uomo, è difficile che la sera della sua scomparsa si sia lasciata avvicinare da lui. 

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Inoltre, finora si è parlato di un unico sms ricevuto dalla vittima da una sua amica alle 18,49, al quale Yara non risponde. Ma nel provvedimento del gip si parla di tre sms: alle 18,25 il cellulare di Yara riceve un messaggio; alle 18,44 risponde; alle 18,49 riceve ancora ma non risponde più. Fino al secondo sms il cellulare di Yara aggancia la cella di Ponte San Pietro, compatibile con la palestra di Brembate; il terzo invece aggancia la cella di via Natta a Mapello, area opposta rispetto al tragitto che Yara avrebbe dovuto fare per tornare a casa. O Yara fino alle 18,44 era ancora per strada, ma sembra difficile, oppure era già salita sul furgone e aveva ancora la possibilità di sentirsi tranquilla. Cinque minuti dopo era in preda al terrore.

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giuseppe guerinoni padre biologico di massimo bossettigiuseppe guerinoni padre biologico di massimo bossetti