DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Estratto dell’articolo di Leonardo Bison per “il Fatto quotidiano”
Lavoratori senza documenti e contratto, dormitori negli opifici, assenza di misure di sicurezza, “una cultura di impresa gravemente deficitaria sotto il profilo del controllo, anche minimo, della filiera produttiva della quale la società si avvale”. L’ordinanza della procura di Milano che ha messo sotto amministrazione giudiziaria la società strumentale di Giorgio Armani, Giorgio Armani Operations (non indagata), non ha avuto solo il merito di mettere in luce il modus operandi in una delle aziende più note del fashion Made in Italy, “una prassi illecita così radicata e collaudata” da poter essere considerata in una “più ampia politica d’impresa diretta all’aumento del business”, scrivono i pm.
Ma, essendo la seconda misura di amministrazione giudiziaria, in pochi mesi, che riguarda un brand della moda (a gennaio era toccato ad Alviero Martini, sempre non indagata), segna anche l’inizio di un nuovo filone di inchiesta sul tema dello sfruttamento del lavoro da parte della procura di Milano. Stavolta, a tremare è uno dei fiori all’occhiello del Made in Italy: la filiera della moda e del lusso, che vale 66 miliardi di fatturato. Tanto che il presidente del tribunale di Milano Fabio Roia ha già proposto di “avviare un tavolo che consenta in via ulteriormente preventiva di cogliere le criticità operative” in un settore di mercato “di particolare rilevanza per il sistema economico nazionale”.
Ciò che hanno certificato gli investigatori è che lungo la filiera, al fine di abbattere i costi, vengono completamente evase le imposte dirette relative al costo dipendenti (contributi, addizionali etc.), omessi tutti i costi relativi la sicurezza, occasionalmente rimossi i dispositivi di sicurezza dalle macchine, i lavoratori non hanno formazione, c’è chi lavora a cottimo, e senza dubbio i macchinari erano accesi anche nei festivi nonostante contratti che parlavano di solo 20 ore di lavoro a settimana.
lavoratori cinesi alviero martini
[…] I pm, in base a tutte le evidenze raccolte, spiegano che la “casa madre” non poteva non sapere: avendo scelto come fornitori aziende che non avevano la manodopera sufficiente per eseguire quanto richiesto, e pagando a queste cifre troppo basse per un costo del lavoro regolare, il risultato era matematico. In un caso, nell’opificio gli investigatori hanno trovato un impiegato di Giorgio Armani, lì per controllare la qualità del prodotto. “La società ha da sempre in atto misure di controllo e di prevenzione atte a minimizzare abusi nella catena di fornitura”, ha spiegato invece G.A. Operations. Il ragionamento fatto dalla procura ha implicazioni di rilievo.
La filiera della moda ha le sue regole, diverse da quelle di altri settori: in particolare, non si fonda su appalti ma su forniture. Non un fatto marginale: il lavoratore che denuncia il proprio datore (sub-fornitore) per irregolarità, vedrebbe con ogni probabilità la cessazione della fornitura e del suo lavoro, con ancora meno garanzie di un lavoratore in subappalto.
Le maison formalmente non hanno nessun rapporto con gli opifici, quasi sempre a conduzione cinese, che avvalendosi di manodopera irregolare riescono a “produrre volumi di decine di migliaia di pezzi, a prezzi talmente sotto soglia da eliminare concorrenza” scrivono i pm, che notano: “È infatti del tutto evidente come qualsiasi azienda che producesse al medesimo prezzo ma ad un costo di lavoro legale andrebbe in perdita dopo poche settimane”.
Il report 2023 Una luce sulle pratiche commerciali sleali pubblicato da Abiti Puliti, intervistando centinaia di imprenditori, ha confermato come siano le maison a imporre prezzi di acquisto e condizioni “che non consentono quasi mai ai fornitori di coprire tutti i costi di produzione”: di norma 0,30-0,40 centesimi al minuto di lavoro, con tutti i costi compresi, senza poter negoziare. Ma non è solo Armani a operare così, tutt’altro. Il cuore della produzione italiana, e europea, è Prato, il più grande distretto tessile del continente.
[…] Agli opifici, per una borsa (che poi, a seconda del marchio, può essere venduta a 1.500, 2.000 euro) viene corrisposta una cifra che va dai 25 ai 35 euro. Spesso i contratti non sono scritti. La manodopera è ormai quasi totalmente asiatica, Pakistan, Bangladesh, Afghanistan, e Cina.
A Prato i sindacati sono riusciti a entrare negli opifici attraverso la comunità pakistana. Ma il controllo sulla comunità cinese, spiega Toscano, è più elevato: di norma vivono in dormitori offerti dal padrone, e arrivano in Italia con un debito, per lavorare in quel luogo: “A volte ricevono parte dello stipendio in cibo. E molti lavorano a cottimo: gli altri quasi mai”. Non stupisce che le denunce latitino.
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