DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
In una democrazia sana e antifascista sotto scorta e sotto censura dovrebbero essere i fascisti, non i giornalisti e gli scrittori. Meloni e i suoi sono figli di una storia non rinnegata ma anzi restaurata. Ecco il risultato.
#ilritornodellabestia stasera in @FondFeltrinelli pic.twitter.com/0MTk4aUjnW
— Paolo Berizzi (@PBerizzi) April 23, 2024
Estratto dell‘articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica”
paolo berizzi - il ritorno della bestia
Dico subito che, a differenza di Paolo Berizzi, io non credo che quel consenso esteso verso Benito Mussolini, che Renzo De Felice ha molto ben documentato, sia diventato un fiume carsico che non ha mai smesso di invadere con le sue acque torbide la superficie del Paese.
Berizzi rilancia anche la tesi, cara ai “rivoluzionari” che si sentirono “traditi”, secondo cui a bloccare “la defascistizzazione”, il 22 giugno del 1946, si dedicò l’imperdonabile Togliatti che varò l’amnistia e «per evitare una seconda guerra civile» permise all’Italia «di cambiare restando com’era», e dunque alla Bestia di vivere seminascosta, «in transumanza», poi «in allevamento » e infine di scorazzare «fuori dal recinto».
Ebbene, sono venti anni che Berizzi bracca la Bestia, segue le orme e fiuta le tracce. E a noi che, volendogli bene, già venti anni fa gli chiedevamo «stamattina hai trovato fascisti sotto il letto?», rispondeva «li ho trovati nelle piazze, nelle curve degli stadi, ai raduni nazirock». Dieci anni dopo li vedeva “sul web”.
GIOVANNI DONZELLI GIORGIA MELONI IGNAZIO LA RUSSA
E una volta gli dissi che sembravano Tom e Jerry, lui e la Bestia, «stai attento che non si capisce chi è il gatto Tom e chi il topo Jerry ». E poi però lo misero sotto scorta, perché lo minacciavano duro. «E ora dove li vedi i fascisti?». E lui: «Al governo, li vedo al governo».
Se nella prima parte di Il ritorno della Bestia (Rizzoli) che è il suo compendio filosofico, l’acchiappa-fascisti ha deformato e gonfiato di iperboli la biografia intellettuale della generazione dei “bimbiminkia”, di Giorgia, sicuramente è il solo cronista che «li aveva visti arrivare», e dunque il solo che li ha raccontati senza il nostro stupore e il nostro stordimento davanti ai loro occhi di lupi vincitori.
antonio scurati alla presentazione del libro di paolo berizzi - il ritorno della bestia 1
«Taci, Berizzi ti ascolta» si dicono “i patrioti” tra loro. Non c’è infatti svalvolato che sia sfuggito al cronista di “nera” più bravo d’Italia, dal “balengo” Pozzolo a Delmastro, da Luca De Carlo alla collezionista di libri neri Paola Maria Chiesa, dall’editore condannato per il saluto romano Marco Giuseppe Carucci a Chiara Colosimo “fascista cubista” fotografata con il terrorista.
E quando la leghista Francesca Renzi regala all’assessore Elvis Martino il libro del postanazista Dugin c’è Berizzi che li vede. Origlia sotto il palco del generale Vannacci, spia la pitonessa Santanché che ringhia: «rivendico con orgoglio di essere fascista se fascista vuol dire cacciare a pedate nel sedere i clandestini e gli irregolari».
paolo berizzi - presentazione del libro il ritorno della bestia
La Bestia, ci spiega il Berizzi filosofo, passata per il Msi di Almirante, per Berlusconi e Fini e poi per Salvini, il 22 ottobre del 2022 è tornata e, con la fisiognomica della “reginetta di Coattonia” – mossette e occhiatine, urli, silenzi e risatine –, ha spergiurato fedeltà alla Costituzione tra le tende rosse e il luccichio dei lampadari del Quirinale.
«Dentro la democrazia – mette in guardia Berizzi – per disossarla dall’interno». La Bestia intanto «è diventata pop», «fascismo da marciapiede», riscrittura della storia e diritto all’odio, revanscismo e nostalgia: «In Italia la tolleranza per le esibizione fasciste è una piacevole brezza per la Bestia».
[…] tra le tante Italie del Censis, scontate e immaginifiche, è sempre mancato uno studio sul fascino di questo nero che non sfuma mai.
Ebbene, Paolo Berizzi offre gli strumenti a tutti gli studiosi. È dai materiali di scena e retroscena di Berizzi che il Censis dovrebbe ripartire per spiegarci finalmente l’Italia «da Giorgio a Giorgia», che aveva 11 anni quando «il grande uomo Almirante» morì e dunque non l’ha conosciuto ma lo celebra ogni 22 maggio, anniversario della morte, e gli fa intitolare strade e piazze, lo spaccia per campione della democrazia e ha ricomprato la sede storica di via della Scrofa dove sogna una cerimonia di riabilitazione nazionale.
sergio mattarella ignazio la russa giorgia meloni
Berizzi ha ragione: le radici di Fratelli d’Italia, le bandiere, il passato che inorgoglisce la Meloni è quello della destra italiana degli anni Settanta e non è quello fascista, di cui Almirante fieramente non si pentì mai. E Berizzi ne ricorda l’orrendo antisemitismo giovanile che, però, da vecchio abiurò.
L’Almirante che io ho conosciuto da cronista era gentile di modi ma non fu mai un campione della democrazia e non sono un’invenzione della propaganda di sinistra i “picchiatori fascisti” degli anni Settanta che lo adoravano e organizzavano spedizioni punitive e agguati vigliacchi. Come ricordò Emanuele Macaluso, «sono fotografati con le spranghe nelle mani, tutti attorno ad Almirante».
il ritorno della bestia - paolo berizzi
Berizzi ricorda che qualcuno è poi saltato in aria fabbricando e sistemando bombe. E c’è stato un terrorismo nero che ha ucciso e ha accoltellato ed era difficile distinguere il manganello dal doppiopetto e solo chi ha dimenticato gli anni Settanta – ma chi li ha dimenticati? – potrebbe prendere per buone le vibrazioni di orgoglio democratico di Almirante in quel tempo.
È vero che ci furono vittime anche tra quei giovani, e bene fece allora Walter Veltroni a rendere onore, con una passione che a tutti – anche a destra – parve sincera, alla memoria dei fratelli Mattei orrendamente bruciati vivi da un commando di vigliacchi terroristi di Potere Operaio.
Ma al netto della goffaggine, cosa vuole sostenere la Meloni, forse che Almirante liberò l’Italia dai rancori eversivi fascisti disinnescandoli dentro un Msi borghese? Non è così. O ancora che Almirante sconfessò e disarmò il terrorismo nero? Non è così.
Oppure che, rendendo omaggio alla salma di Berlinguer, è stato un pacificatore. Almirante rimane quello che, la domenica 6 settembre del 1987, un anno prima della morte, proprio a me, unico cronista presente, rivelò che avrebbe lasciato la segreteria al giovane Gianfranco Fini e chiuse la Festa Tricolore a Mirabello con la seguente profezia: «Siamo fascisti, siamo il fascismo in movimento, e il fascismo non è il nostro passato ma il nostro futuro». La camerata Meloni aveva 5 anni.
La sola cosa che la sociologia più o meno ogni anno ci ha spiegato ex cathedra è che «disamorati e risentiti, gli italiani vogliono essere governati da un uomo forte al di sopra del Parlamento». È questo il premierato, sospetta Berizzi.
Antonio scurati angela mauro lorenza ghidini paolo berizzi enrico deaglio 1
Da decenni i libri di storia ci mettevano in guardia non da Mussolini ma da Garibaldi, che è l’archetipo nazionale dell’uomo d’azione come uomo di mano e uomo d’ordine, mai leader ma sempre “grande capo” come gli squadristi Balbo e Farinacci, come D’Annunzio e Mussolini appunto.
E sarebbe da studiare l’ossessione del «qui ci vuole un uomo» non importa se mezzo vero e mezzo finto, autocelebrativo, declamatorio e anche un po’ ridicolo, come il Craxi decisionista con gli stivaloni, come il celodurista Bossi e come il corruttore Berlusconi, come il truce Salvini, e come Giorgia “Dio Patria e Famiglia”, perché sempre “l’uomo della provvidenza” in Italia è un eroe comico e drammatico: Di Pietro e D’Alema, Renzi e Beppe Grillo «e quando c’era lui, caro lei».
Possiamo addirittura, Berizzi e noi, dar ragione a Giorgio Bracardi che per Renzo Arbore cantava (1974): «Se ce fosse Pippe Baude a comandar. La situazione è grave, non se ne può più / la gente invoca l’uomo forte:/ se ce fosse Pippe Baude a comandar. Pepeeeee! Pepeeeee!».
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