DAGOREPORT – REGIONALI DELLE MIE BRAME! BOCCIATO IL TERZO MANDATO, SALVINI SI GIOCA IL TUTTO PER…
1. I FAN DI BOSSETTI SCATENATI IN TRIBUNALE. DA GEBOVA A NAPOLI, LA GENTE ARRIVA A PALAZZO DI GIUSTIZIA PER DIFENDERE IL MURATORE NONOSTANTE INDIZI E DNA
Cristiana Lodi per “Libero Quotidiano”
‘’Abbronzatissimo, Massimo Bossetti è abbronzatissimo». «Tiene i gomiti sul tavolo, muove i piedi. È nervoso, si è pettinato col gel». «È in jeans, maglietta e scarpe da ginnastica»: annotata anche la marca, ci mancherebbe. Massimo Bossetti, da là dentro: dal gabbiotto vetrato, «si è girato una volta soltanto per guardare il pubblico alle sue spalle».
Già, il pubblico: non solo cittadini della Bergamasca laboriosa che per l’occasione hanno preso un giorno di ferie, ma anche napoletani e genovesi e marchigiani. Sono arrivati da nord e da sud e dal centro con la speranza (non per tutti soddisfatta dagli 80 posti a sedere) di assistere al processo.
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Di guardare lui: Massimo Giuseppe Bossetti, l’uomo filmato sul cantiere mentre in ginocchio viene ammanettato per l’omicidio della bambina. Sarà assolto o condannato? È la domanda di questo genere umano accorso al Tribunale. Vota subito! Mentre lei, Yara: la bambina assassinata, resta la più dimenticata di questa storia nera.
Lo chiamano il processo dell’anno, questo che si è aperto ieri contro il carpentiere di Mapello. L’uomo del Dna stampato sulle mutande di Yara tagliate di netto col coltello e che per quattro anni è stato Ignoto 1. L’uomo di quel furgone bianco segnalato fin dalla sera della scomparsa di lei. L’uomo che il giorno dell’arresto ha scelto di tacere anziché gridare la sua innocenza al magistrato.
L’uomo che soltanto più tardi ha giurato di non essere l’assassino senza però riuscire a convincere chi lo accusa, adesso in aula dice di avere fiducia nella giustizia. A Bergamo sono venuti tutti per lui. Soltanto 80 posti a sedere riservati al pubblico, in questo pubblico processo che ha lasciato fuori tanti «curiosi». Così chi non può assistere al dibattimento che soltanto a settembre entrerà nel vivo, sceglie di prenderne parte. A proprio modo. In piazza.
Allora eccoli i fans del presunto assassino che innalzano i cartelli con la scritta «Liberatelo!», «Giustizia per Bossetti!». Si concede alle telecamere e dispensa pillole di saggezza il pingue signore venuto da Forlì: «Noi cittadini non abbiamo letto gli atti ma sappiamo ciò che scrivono i giornali e trasmette la tv: qui non quadra niente. Le accuse non stanno in piedi. Le indagini non hanno né capo né coda». La tv, i giornali, tutti a ripetere lo stesso Vangelo e a incolpare i famelici media. Ma sono gli stessi media e le stesse tv che la difesa dell’imputato vorrebbe in aula.
Mentre accusa e parti civili si oppongono. «Il rischio è la spettacolarizzazione di una tragedia», obbietta il pubblico ministero Letizia Ruggeri. La Corte deciderà il prossimo 17 luglio, quando si pronuncerà anche su altre eccezioni sollevate dai difensori del muratore. Il Dna per esempio.
Secondo gli avvocati di Massimo Bossetti sarebbe stato prelevato senza alcuna garanzia difensiva «in quanto non si può dire che (il 15 giugno scorso) quando il sospettato è stato fermato e sottoposto all’alcoltest da cui è stato prelevato il suo codice genetico, non fosse già indagato».
Come dire che, forse, il sospettato di un crimine prima di essere pizzicato con la pistola fumante in mano, potrebbe essere stato iscritto nel registro degli indagati. Schermaglie processuali. E se ne vedranno tante in questo dibattimento che Bossetti ha scelto di celebrare pubblicamente.
Davanti a giornalisti, semplici spettatori e al cospetto della piazza che non conosce gli atti ma a suo modo disseziona, indaga e accomuna in un vouyerismo compiaciuto. I grandi assenti, ieri, sono stati i genitori di Yara. I soli a non voler guardare la faccia dell’uomo accusato di averla uccisa. Anche loro, per questo, fra i dimenticati.
2. ‘’FOSSE PER ME VORREI LA SENTENZA SUBITO TANTO SONO TRANQUILLO”
Paolo Berizzi per “la Repubblica”
«Allora come è andata? ». «Bene, tanto tu Massimo non hai capito niente, vero?». Sorride Massimo Bossetti dentro il gabbione degli imputati. Sono le 11.25: l’udienza è appena finita e Paolo Camporini, uno dei due avvocati, entra e lo sfotte. «Tocca ferro — l’espressione in realtà è più colorita — . L’udienza più importante, quella che ti interessa, è martedì (la Cassazione deciderà sulla richiesta di scarcerazione: esito quasi scontato, ndr ) ».
Lui fa sì con la testa e sorride di nuovo. Che per uno che rischia l’ergastolo, è in carcere da un anno e ha scoperto di non essere figlio di suo padre e tante altre cose, non è proprio una reazione scontata. Per un attimo, abbronzatissimo in mezzo a questo cubo di vetro che sembra un acquario pronto ad annegarlo, Bossetti torna sul processo. «Guarda — rivolto all’avvocato — se fosse per me vorrei la sentenza oggi. Capito?».
YARA GAMBIRASIO - MASSIMO BOSSETTI
Magro come è entrato in carcere, lo stesso intenso colore del viso. Serio, concentrato. Jeans, polo blu a maniche corte, sneaker bianche, capelli “gellati” con sfumatura alta, fede al dito. Il presunto killer di Yara, l’uomo impassibile che non crolla e che ripete al mondo «sono innocente», fa il suo ingresso in aula alle 9.25. Si apre una porticina bianca di ferro e, in mezzo a tre agenti, spuntano le mèches che incorniciano il ciuffo. Per Bossetti è la “prima” in pubblico.
Lo aspettano tutti: 80 curiosi, 34 giornalisti, una pletora di avvocati e il suo grande accusatore, Letizia Ruggeri: seduta accanto al capo della procura Francesco Dettori, li separa un metro e mezzo e una parete di vetro. Bossetti arriva a bordo di un cellulare. Entra a palazzo di giustizia da un ingresso secondario. «Nervoso, molto nervoso », dice chi lo ha incrociato nella pancia del tribunale. In realtà appare quasi disteso.
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Appena messo piede nella gabbia degli imputati, sulla sinistra, si gira di spalle perché gli devono togliere le manette. Segue un primo sguardo verso il pubblico che da un’ora e mezza ha preso posto dietro di lui. Sguardo smarrito. Sta in piedi tre minuti Bossetti, tamburella col piede destro, gesto che ripeterà per quasi tutta l’udienza.
Poi si siede e appoggia i gomiti su una scrivania nera dove è posto un microfono che non gli servirà. «Verrò a tutte le udienze », ha ripetuto a Salvagni, l’avvocato che lo segue dall’inizio del suo peggiore incubo e del quale si fida come un padre.
Ma la strada è in salita, per usare un eufemismo. L’ha detto anche alla moglie, Marita Comi, “la Marita” che si, sarà anche scesa in campo pubblicamente per difenderlo — interviste, copertine — ma nei colloqui in carcere lo ha incalzato e a muso duro gli ha spiattellato un «Massi, adesso basta, smettila di dire balle!».
Qui non c’è la madre-confidente: Ester Arzuffi non compare nemmeno nella lista dei testimoni della difesa perché, cuore di mamma, pur sbandierando la supposta innocenza di “Massi”, si ostina a sfidare l’evidenza scientifica non ammettendo che il figlio è nato dalla relazione con Giuseppe Guerinoni: «una cosa che non esiste».
Che testimone può essere una così per la difesa del figlio? Ora che si inizia a fare sul serio, forse si può anche capire che uomo è davvero questo carpentiere tutto d’un pezzo che resta lì impassibile al suo posto a sciropparsi due ore e mezzo di tecnicismi, codici, giudizialese puro. «Questo è un processo accusatorio, il vostro compito è provare se l’accusa è fondata».
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Mentre parla Salvagni, l’imputato più misterioso d’Italia incrocia le braccia. Poi si passa una mano sulle guance ben rasate. «Se dite che vittima e imputato si conoscevano, allora cambia tutta l’impostazione... ». Guarda i secondini. È quasi finita, la prima di chissà quante udienze. Fuori ci sono una decina di fan, ragazzotti, un paio di signori in età. «Liberatelo!». «Lasciatelo andare poer òm », povero uomo. E a Yara chi pensa?
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