“CHIARA, TI RICORDI QUANDO HAI AMMESSO A FEDEZ CHE TI SEI SCOPATA ACHILLE LAURO?” - IL “PUPARO” DEL…
Antonio Riello per Dagospia
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La Wallace Collection di Londra ha recentemente dedicato una rassegna al popolo dei Sikh (originario del Punjab e famoso per le sue doti guerriere). Adesso è il turno del Victoria & Albert Museum di occuparsi della Storia indiana. Una imponente mostra (curata da Susan Stronge) celebra l’età d’oro dell’Impero Mughal (1560-1660).
Sono più di duecento i manufatti esposti e provengono da varie collezioni, sia britanniche che orientali (c’è anche un bellissimo scudo prestato dal Museo del Bargello di Firenze).
Nel 1526 il subcontinente indiano (frammentato in tanti staterelli) viene invaso da bellicose popolazioni nomadi dell’Asia Centrale discendenti da Tamerlano. Sono note come “Mughal” (che significa mongolo). Il loro capo si fa chiamare Babur. Portano con loro la religione islamica e la lingua iraniana (erano stanziate tra Iran e Afghanistan).
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La mostra inizia con il regno del figlio di Babur, Akbar il Grande, che dà forma ad un impero che comprende l’odierno Pakistan e gran parte dell’India (parte del Centro e tutto il Sud rimangono indipendenti). Akbar è tanto crudele in guerra quanto illuminato in tempo di pace. Si dà da fare per far realizzare una grande quantità di libri miniati pieni di immagini.
Non solo copie del Corano, ma anche racconti e trattati storici, perfino un racconto illustrato delle imprese di Alessandro il Macedone. La sua corte non ha ancora una vera capitale, si sposta in continuazione a seconda delle esigenze.
Jahangir ne prende il posto e l’ambasciatore inglese dell’epoca definisce suo regno come “la tesoreria del Mondo”: vengono accumulate ricchezze incredibili (oro, argento, avorio, pietre preziose). L’artigianato del suo impero produce comunque meraviglie anche usando seta e madreperla. Ma non basta, vengono importate merci di pregio dalla Cina e dall’Europa.
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Compaiono nei suoi tesori decori animali (anche tacchini appena importati dalle Americhe e zebre africane). Un suo elaboratissimo mantello da caccia, in mostra, non sfigurerebbe in qualche sfilata di moda contemporanea. Non mancano scimitarre e armature incastonate di pietre preziose, tratte dalle favolose miniere della città di Golconda. È piuttosto tollerante e “inclusivo”: ha a che fare anche con i Gesuiti (in mostra il ritratto di un missionario fatto da un pittore della sua corte).
La terza parte è focalizzata sull’imperatore Shah Jahan. Forse il più noto, in quanto committente del celeberrimo Taj Mahal di Agra (è un monumento funebre dedicato all’amatissima moglie Mumtaz Mahal). Lui è un animo gioioso, raffinato ed ecumenico. Ama la cultura e il lusso. Tappeti floreali di straordinaria fattura appartengono alla sua corte.
Finisce tristemente i suoi giorni imprigionato dal figlio Aurangzeb, un bigotto fondamentalista, psicopatico e violento (questa suona davvero come una versione orientale dello shakesperiano King Lear). La favola dei Mughal inizia così la sua parabola discendente. Pensera’ in seguito la Compagnia delle India, con i suoi cannoni, e chiuderla definitivamente.
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A dispetto dell’indubbio interesse storico mancano qui, in verità, degli oggetti veramente iconici che sappiano imprimersi nella memoria dei visitatori. E’ forse più interessante leggere questa notevole esposizione in relazione alla situazione geopolitica britannica. La Storia, alla fine, è come se fosse un’arma.
l Victoria & Albert tempestivamente sottolinea in questa occasione, tra le righe, il volto quasi-laico (e comunque tollerante) che nel corso della Storia l’Islam ha saputo esprimere. Una rassicurante immagine per descrivere la popolazione di religione islamica nel Regno Unito (nel 2021 assommava a più del 6,5%). E un modo per dimostrare che il radicalismo religioso non è congenito ma solo l’espressione esasperata e patologica di alcuni momenti storici.
A margine va notato che proprio le invasioni dei Mughal sono all’origine delle ricorrenti tensioni della società indiana: Indù contro Musulmani. I primi (almeno i più nazionalisti) si ritengono i “veri indiani” e considerano ancora gli altri (dopo ben 500 anni!) come degli sgradevoli invasori.
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Altra questione dirimente: le istituzioni culturali britanniche cercano - come possono - di ammansire il risentimento anti inglese che serpeggia negli ultimi anni nella politica indiana. Ovvero sfornando tributi culturali all’ex colonia.
Nel 2023, Narendra Modi, il leader del Partito Popolare Indiano, attualmente al potere, ha deciso di cambiare formalmente nome al paese: da India (usato dagli Inglesi) a Bharat (nome in lingua Indù). Le forniture di armi al paese asiatico, un tempo appannaggio dell’industria britannica, oggi fanno capo a Francia e Russia. Ma soprattutto all’industria nazionale indiana (pardon, Bharatese).
Infine, fresca di pochi giorni, Oxfam (onlus potente e fortemente radicata a sinistra) ha reso noto la ricerca di due ricercatori, Prabhat e Utsa Patnaik, che si auto-definiscono “economisti marxisti” (curioso che ne siano ancora in circolazione). Secondo loro il Regno Unito avrebbe accumulato un conto di riparazioni coloniali (non si capisce se il Pakistan e’ compreso o no) di ben 64.82 trilioni di dollari. La stima va dal 1765 al 1938. Altre stime precedenti erano assai meno salate.
Non ci sono ancora richieste formali da parte di Modi. Prima o poi, molto facilmente qualcuno si deciderà a chiedere un bel po’ di quattrini al governo britannico. I media londinesi al momento minimizzano. Ma intanto i musei, con la loro autorevolezza internazionale, aiutano a guadagnare tempo prezioso.
“THE GREAT MUGHALS: Art, Architecture and Opulence”
Victoria & Albert Museum, Londra
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