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Giancarlo Saran per “la Verità”
Che fosse il re del bel canto è cosa risaputa, ma forse non tutti conoscono il dietro le quinte del tenore modenese, laddove i peccati di gola, se intuitivi basandosi sui normali riferimenti antropometrici, avevano basi solide di una passione per la cucina applicata sul campo, anzi, direttamente ai fornelli. Era scritto tutto nel Dna. Papà Fernando, di professione fornaio, amava il bel canto e si portava il piccolo Luciano nelle tournée della sua compagnia di lirici per diletto. Imprinting che ha lasciato il segno.
Un tenore che ha lasciato memoria indelebile nei teatri di tutto il mondo, con l'hobby della cucina come passione di vita. Una sintesi ben tratteggiata da Franco Zeffirelli: «Se Dio non ce lo avesse regalato avremmo dovuto crearcelo da soli». Cucinare lo rilassava, tra un concerto e l'altro, tanto da estraniarlo al punto che, un giorno, mentre si preparava la colazione non si accorse che la sua vestaglia stava andando a fuoco.
Fu prontamente riportato alla realtà da Edwin Tinoco, per tutti Ciccio, il suo assistente personale per anni. Pavarotti non amava solo cucinare nelle sue case, Modena, Pesaro, la residenza delle vacanze, assistito dalla signora Anna o New York. Ma, quando partiva per le tournée in giro per il mondo, gli veniva allestita una cucina su misura nelle suites riservate degli alberghi, a partire dal frigobar, che doveva essere di stazza extralarge per contenere tutto il bendidio che si portava dall'Italia: parmigiano reggiano, salumi, pasta di vari formati, aceto balsamico rigorosamente di Modena.
Anche i camerini dei teatri non erano da meno, un arredo che comprendeva, oltre agli abiti di scena, cesti di frutta, caramelle al limone e miele, un consommé di pollo bollente oltre a svariati pezzetti di mela rossa, che entravano poi in scena con lui, avvolti nell'immancabile foulard che faceva parte della sua mise teatrale . Nei video dei vari spettacoli appare spesso come Pavarotti usasse i foulard per asciugare il sudore del volto in realtà c'era il trucco.
Il foulard gli serviva anche per nascondere di mangiare pezzetti di mela, stimolazione alla salivazione per ottimizzare il bel canto. Nelle trasferte lungo i cinque continenti Pavarotti non viaggiava mai solo, oltre allo staff naturalmente, ma mediamente erano una trentina le valigie che, oltre all'armadio, servivano a riempire le cucine di destinazione. Innumerevoli gli esempi. Dopo un concerto al Metropolitan di New York lo aspettavano a Tokyo.
La logica avrebbe previsto uno scalo a Los Angeles e da lì, poi, verso il paese dei Samurai. Ma lui chiese di invertire la rotta. Doveva passare per l'Italia e fare provvista dei suoi amati ingredienti emiliani, non era sicuro di poter preparare le penne all'arrabbiata con quanto offerto nelle bancarelle orientali. Un giorno si trova nella storica trattoria della famiglia Zeffirino, a Genova. Lo attende una serie di spettacoli in Cina.
«Non mi dispiace la cucina cinese, ma in quel Paese devo portare le nostre tradizioni». Detto fatto, in tempo reale gli Zeffirino, con due di loro ingaggiati al volo per cucinare a fianco del maestro tra uno spettacolo e l'altro, provvedono alla bisogna. Non solo provviste edibili, ma pure attrezzature varie, tanto le suite sarebbero state extralarge, come il loro ospite: pentole e stoviglie, fornello da campeggio, forno mobile, frigorifero.
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Al momento di staccarsi da terra, Pavarotti ricordò anni dopo questo episodio: «Non so ancora come fece quell'aereo a decollare, guardavamo fuori dai finestrini pensando: non ci staccheremo mai da terra. Invece ci riuscimmo, ma sfruttando, credo, fino all'ultimo centimetro della pista genovese». A New York la sua generosa esuberanza in cucina era proverbiale. «Faceva tali incette di provviste che spesso gli invitati, dopo la sua lauta cena, se ne andavano con borse di cibo sufficienti per una settimana».
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Poteva capitare che, uscendo dagli applausi dopo uno spettacolo al Metropolitan, sulla strada di casa facesse tappa al San Domenico dell'amico Tony May. Spesso si presentava con ancora i costumi di scena addosso «in quanto aveva bisogno di un po' di tempo per tornare sé stesso dal personaggio che era stato». Immancabile un secondo scroscio di applausi da parte di avventori lasciati a bocca aperta per l'apparizione.
Qui presenza fissa nel menù di piatti conseguenti. Gli spaghetti alla Pavarotti, ovvero classici al pomodoro, ma personalizzati con sale all'aglio, peperoncino e un pizzico di zucchero, come pure l'omonima torta, una mille foglie alla crema inventata dal Maestro. Nel bel libro Alla Luciano, curato dalla Fondazione Pavarotti, appaiono molte altre elaborazioni frutto dell'estro del tenore culinario. Su tutti delle originali pennette con melone e menta, un grande classico estivo offerto agli ospiti nella sua residenza di Pesaro.
«Un piatto semplice e veloce» come ricorda Luca Marchini, talentuoso chef che ha curato la revisione critica di molte delle ricette del Maestro «dove l'abbinamento, apparentemente ardito, è stato curato con fantasia audace, ma molto meditata» comprese le listarelle di prosciutto spadellato a lamelle che si uniscono agli altri due ingredienti su di una pasta servita fredda. Altro piatto del buon ricordo della cucina tenorile la piccatina balsamica alla Pavarotti, un classico milanese rivisitato. Noce di vitello spadellata con leggera infarinatura e personalizzato alla modenese con listarelle di prosciutto crudo e un cucchiaio di aceto balsamico.
Nella versione meneghina un piatto semplice e veloce, dalla preparazione di circa mezz' ora, ma a cui il Maestro dedicava anche un'ora «il tempo civile per distaccarmi mentalmente dalle sinfonie del melodramma e dedicarmi fattivamente alle altre, pur gratificanti, della cucina». E che dire del friggione, un soffritto cotto molto lentamente di cipolle, con un cucchiaio di zucchero e strutto, cui veniva poi aggiunto del pomodoro. Ideale spalmato sul pane come rustico antipasto, il suo trionfo con il gran bollito, posto il fatto che «al frizon le bòn con tot», cioè mai mettere limiti alla provvidenza della dispensa.
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Gli episodi a sfondo culinario che vedono coinvolto Pavarotti con il gotha del mondo sono innumerevoli. Quando invitò Lou Reed nella sua casa di New York e gli insegnò i riti legati al vero caffè all'italiana, quest' ultimo si portò via, alla fine, la moka giusto per non dimenticarsi nulla. A Pesaro arriva Peter Ustinov, due premi Oscar, che messo alla prova con il sugo di pomodoro «personalizzato» con dosi palestrate di aglio, dopo averlo deglutito più per cortesia che per voracità soffiò nell'aria più volte, tanto da esclamare, davanti ad un interrogativo Pavarotti «credo di aver ucciso qualche insetto con il mio alito».
Una volta a cena fece da cavaliere a Lady D. Ordinarono due piatti diversi. Il Maestro guardò con curiosità golosa la pasta ai gamberetti di una compita Diana. «Com' è il piatto?» «Buono». In men che non si dica affondò la forchetta nel piatto per verificarne il giudizio. A una perplessa gentildonna che lo guardò stupito esclamando «finora non avevo mai condiviso nulla dei miei piatti con altri», rispose sornione: «Principessa, la vita è costellata di meravigliose prime volte».
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Giovanni Rana lo volle come testimonial in uno dei suoi spot. I due si presero le misure a Pesaro. I ravioli del veronese contro le tagliatelle della casa. Girarono poi un video per il mercato spagnolo, entro le volte del Teatro all'Opera di Montecarlo. Nei panni di Otello il Maestro veniva chiamato da Giovanni Rana che sporgeva appena dalle quinte, la pasta era pronta. «Strozzo Desdemona e sono da te», con le doppie zeta rigorosamente all'emiliana. Tale il successo che, anni dopo, Rana così lo commentò «Io, più di tanto, non vendetti in Spagna, ma Pavarotti schizzò ai vertici delle vendite di dischi».
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