DAGOREPORT - CHI L’HA VISTO? ERA DIVENTATO IL NOSTRO ANGOLO DEL BUONUMORE, NE SPARAVA UNA AL…
Salvo Palazzolo per “la Repubblica”
La chiamavano «sdisanurata». E anche «indegna». I mafiosi dicevano di lei: «È il male». Un' accusa senza appello, senza attenuanti per la giovane moglie di un boss condannato all'ergastolo. «Non sta mancando di rispetto solo alla sua famiglia», ripetevano. I mafiosi più agguerriti di Palermo arrivarono persino a convocare un summit per decidere il destino della giovane donna: perché era sospettata di avere un amante, l' indagine avviata dalla cosca non lasciava dubbi. Una questione d' onore mafioso anche per la famiglia di lei, un altro cognome pesante in Cosa nostra.
«Sta mancando di rispetto a tutti noi», sentenziò l' anziano padrino del quartiere Villagrazia, Mariano Marchese, un pezzo di storia della mafia palermitana. E nessuno mosse obiezioni. «È una questione di rispetto alla nostra dignità», rincarò la dose Marchese, non sospettava che le sue parole stavano già rimbalzando grazie a una microspia nella sala intercettazioni dei carabinieri del Ros. «Inutile ammazzare lui - ragionava davanti ai suoi uomini - poi lei se ne va a cercare un altro».
Sembra la sceneggiatura di un film, invece è il discorso di un padrino. «Noi dobbiamo andare a fondo - proseguiva - e il fondo è lei. Perciò è al male che dobbiamo andare, il male è lei. S'avissi a ghiri a scipparici a tiesta a idda». E questo non era più un ragionamento, ma un ordine, che è stato fermato da un blitz scattato a marzo. Adesso, alla vigilia del processo, verbali e intercettazioni fanno emergere la storia dei due amanti finiti sotto accusa davanti al tribunale di Cosa nostra.
«Bisognerebbe andare a staccargli la testa»: Marchese non aveva dubbi sulla punizione da infliggere alla moglie del boss rinchiuso da qualche anno al 41 bis. «La vorrei in una stanza… i culpazzi i ligna ci l'avissi a dari, a spaccarici u ciriveddu, sdisanurata e indegna».
Cosa nostra siciliana è in crisi, per gli arresti dei nuovi boss che si susseguono a ripetizione. Ma la testa dei mafiosi non cambia. Anche perché al governo dell'organizzazione sono tornati gli anziani boss scarcerati, che ragionano alla vecchia maniera. U zu Mariano diceva sempre: «Come ha detto u zu Nino».
Nino Pipitone, il padrino dell' Acquasanta che nel 1983 ordinò la morte della figlia venticinquenne, Lia, sospettata di intrattenere una relazione extraconiugale. I sicari simularono una rapina. Un anno prima, un altro mafioso vicinissimo a Totò Riina, Giuseppe Lucchese, aveva fatto uccidere la sorella, il marito e l'amante per il sospetto di un triangolo amoroso. Cinque anni dopo, Lucchese uccise la cognata. «Si diceva che erano donne troppo libere», ha raccontato il pentito Gaspare Mutolo.
Ora, le indagini del Ros coordinate dal sostituto procuratore Sergio Demontis e dall'aggiunto Leonardo Agueci dicono che l'amante della donna di mafia è stato costretto ad andare via da Palermo per qualche tempo. Naturalmente, non per sua scelta. I boss gli hanno imposto l'esilio. «Questo va annagghiatu», dicevano di lui. «Va preso, va bloccato. Ma va annagghiatu giustu, di qua deve scomparire, perché se lui non scompare… lei non se lo dimentica».
Per settimane, le microspie hanno continuato a registrare fibrillazioni nel clan che controlla la parte orientale di Palermo. «In famiglia, i parenti fanno come i pazzi», dicevano le voci che arrivavano dalle viscere della città. «Bisogna prendere una decisione». Una situazione che è stata tenuta sotto controllo dalla procura, per evitare che la punizione decisa fosse messa in atto. Adesso, sembra che lei, la giovane moglie del boss ergastolano, abbia deciso di andare lontano da Palermo.
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