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MASSIMO GALLI SI REINVENTA POLITOLOGO (NON SI SA MAI PER QUANDO FINIRA’ LA PANDEMIA…) – IL DIRETTORE DEL REPARTO DI MALATTIE INFETTIVE DEL "SACCO" DI MILANO: “IO SONO SEMPRE A SINISTRA MA ENRICO LETTA MI SA DI MINESTRA RISCALDATA” (CHE SONO LE PIU' SAPORITE) - "PARLARE DI RENZI COME UN UOMO DI SINISTRA È UNA PAROLA ABBASTANZA GROSSA. NON VEDO IN NESSUNO DELLA SINISTRA UNA PARTICOLARE LEADERSHIP. IL M5S? PIÙ CHE FARO, LAMPADINA"

Ilaria Dalle Palle per "la Verità"

 

Domenica scorsa ha compiuto 70 anni, una tappa importante

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«È uno spartiacque importante, il primo di novembre infatti cesserò anche la mia attività di primario e di professore universitario di ruolo perché andrò in pensione».

 

Massimo Galli, direttore Malattie infettive dell'Ospedale Sacco di Milano, volto tra i più noti (e presenti) in tv da un anno e mezzo a questa parte, ha festeggiato ovviamente a casa con la moglie Tiziana, la figlia che a novembre lo renderà nonno e un paio di amici.

«Pochi intimi. Mi ci vede fare il trasgressivo? Proprio io Poi abbiamo visto la finale degli Europei».

 

Lei ha dedicato gran parte della sua carriera alla lotta contro l'Aids. Come mai per il Covid-19 in un anno è stato trovato un vaccino, mentre in tutti questi anni non s è riusciti a creare un vaccino per l'Hiv?

«Perché è un virus completamente diverso. L'Hiv muta in continuazione. Le faccio un esempio: se oggi una persona viene infettata da un ceppo, troverà a distanza di poche settimane o pochi mesi in quel corpo una quantità di ceppi diversi che hanno origini dal capostipite principale ma che hanno già delle importanti differenze. Sono infezioni definite opportuniste».

 

matteo renzi enrico letta

Da ragazzo era un sessantottino, è vero che era nelle file del movimento studentesco all'università Statale di Milano?

«Assolutamente sì. Consideri però che io nel '68 avevo 17 anni frequentavo ancora il liceo classico Beccaria. Sono andato in piazza pure io a manifestare ma non ho niente da rimproverarmi, non ho sulla coscienza atti di violenza. Nel periodo dell'università ero molto attivo, sono stati anni di formazione, eravamo più in riunioni e in assemblee di quanto si pensasse di andare a ballare o divertirsi la sera. È stata una generazione, la mia, piuttosto spartana che ha imparato a confrontarsi anche con un'idealità che poi non ha avuto grandi risultati dal punto di vista pratico.

LA STRETTA DI MANO TRA ENRICO LETTA E MATTEO RENZI

 

Abbiamo imparato però a confrontarci a sostenere le nostre idee e le nostre posizioni. Per quanto mi riguarda, a occuparmi soprattutto di problemi e fenomeni sociali. Ho iniziato a interessarmi del mondo in via di sviluppo dopo di che questa cosa è stata una delle molle che poi mi ha motivato a interessarmi di malattie infettive. Erano gli anni in cui ci dicevano che le malattie infettive con gli antibiotici e i vaccini sarebbero state superate e che il grosso problema era dato dalle malattie degenerative legato allo sviluppo industriale».

 

Come ha deciso di fare medicina?

«Mio padre era un medico di base, gli sarebbe piaciuto fare una carriera universitaria, si laureò con lode nel 1944 e non era un momento facile per trovarsi una reale possibilità di sviluppo della carriera. La mia professione è un po' un imprinting anche se mio padre non perdeva occasione di dirmi che questo è un brutto mestiere, un mestiere non riconosciuto, mi diceva fanne un altro.

 

MATTEO RENZI ENRICO LETTA MEME

Sono stato a un passo così da iscrivermi a filosofia ma fu proprio lì che l'atteggiamento di mio padre cambiò. Se avessi deciso di farlo di sicuro non mi avrebbe ostacolato, anzi. Ma ho realizzato quello che lui avrebbe voluto fare. Nessuno della generazione successiva ha fatto poi questa scelta e le devo dire che non mi dispiace assolutamente perché non amo nessuna forma di familismo. Mio padre non mi ha mai indirizzato a nessun collega».

 

È ancora di sinistra?

«Assolutamente sì».

 

Cosa vuol dire essere di sinistra per lei oggi?

ENRICO LETTA GIOCA A CALCIO

«Vuol dire aver una visione dei problemi con un taglio sociale che deriva da un'impostazione ideologica ma anche da studi, per quanto mi riguarda. Credo di avere buone relazioni con molte persone che di sinistra non sono, anzi, sia tra i colleghi che tra le persone. Detesto la politica politicante sia di destra che di sinistra. I politici che scelgono gli obiettivi solo per il tornaconto immediato sul versante della popolarità e del vantaggio elettorale, beh questi non hanno nemmeno un briciolo della mia stima».

 

Ma quindi a chi si sente più vicino politicamente?

«A nessuno in particolare. Io ho sempre tenuto alla mia indipendenza. Se ho da dire, nel mio ambito tecnico, che qualcosa non mi convince o che certe scelte sono sbagliate non ho esitazioni a dirlo nei confronti di nessuno. Avrei avuto molto vantaggio ad apparentarmi con qualcuno o da una parte o dall'altra, ma sono riuscito nonostante tutto e qualche volta con importanti problemi a portare avanti le mie cose e la mia carriera senza dover ricorrere ad apparentamenti con partiti o politici».

 

Ma tra Renzi, Letta, la Boldrini, Zan

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«Non vedo in nessuno della sinistra una particolare leadership. Parlare di Renzi come un uomo di sinistra è una parola abbastanza grossa anche se c'è un'indubbia capacità di movimento, però non lo considererei un paladino della componente di sinistra. Letta è una minestra riscaldata. La Boldrini la conosco poco. Zan sta facendo una battaglia importantissima, temo però che la politica tutta, in questo momento, sta perdendo l'occasione di occuparsi anche di altre contingenze molto importanti. Se insomma da una parte vedo una rilevante incapacità, dall'altra c'è un'importantissima malafede. Tutto condito dall'eclissi del Movimento 5 stelle».

 

 Il movimento all'inizio sembrava un faro

«A mio avviso non è mai stato più di una lampadina».

Come vive questa nuova popolarità?

alessandro zan

«Spesso ora mi chiedono un selfie, le devo dire che mi imbarazza un po'. Le premetto che io non sono mai andato in televisione per denaro, per candidarmi, per scrivere libri Tutta questa disponibilità che do è una gran fatica e mi espone anche ad attacchi beceri, ma d'altronde le persone molto visibili diventano anche molto fastidiose. Poi ho molti attestati di stima ma anche qualche lettera anonima di minacce varie.

 

La visibilità, come nel mio caso, comporta pochi vantaggi se non vuoi sfruttarla. Per esempio, penso di essere stato uno dei pochissimi che nell'ambito di questo periodo si è sempre rifiutato di scrivere un libro. Sa quanti instant book mi hanno chiesto? Un'infinità. In tv ci sono andato e ci vado per una prosecuzione di una battaglia ideale. Volta a cercar di dare il più possibile informazioni attendibili su quello che sta succedendo. Spesso con proiezioni culturalmente oneste sapendo bene che stimo affrontando una malattia che ogni giorno ha una novità e le informazioni cambiano di continuo con nuove scoperte».

 

Qualche suo collega però si è fatto pagare per andare in tv, Cosa ne pensa?

«È professionalmente lecito però io non l'apprezzo e non l'approvo. Dal mio punto di vista è deontologicamente discutibile».

 

Ormai lei e i suoi colleghi virologi siete diventati un punto di riferimento per gli italiani. Ma alcune volte con idee completamente diverse

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«Questa non è una partita tra due squadre di calcio, qui si parla di dati, problemi e rischi. Alcuni miei colleghi a luglio dell'anno scorso sostenevano che il virus era morto e che la malattia non esisteva più.

 

Le dico allora che nel periodo fino al 5 di maggio avevamo avuto ufficialmente 29.000 morti, nel periodo successivo fino a settembre altri 6.000 circa. Dal 1° settembre a oggi, dopo che ci furono delle dichiarazioni sulla morte del virus, abbiamo avuto oltre 92.000 morti in Italia. Forse qualche responsabilità morale chi ha scritto e detto determinate cose a quell'epoca, beh ce l'ha. Detto questo nessuno nega l'importanza di cercare una ripresa per tutte le attività».

 

La tv si dice sia una droga, quando sarà finita questa emergenza non ha paura di non essere più chiamato?

«Non aspetto altro, se la tv è finalizzata al solo narcisismo di sé, le dico che ero già soddisfatto della carriera che ho avuto»

 

Prof, ma quando andrà in pensione, cosa farà?

LUIGI DI MAIO

«Mi dedicherò ai miei hobby che ho un po' messo da parte in questi anni. Per esempio, sono un appassionato raccoglitore di conchiglie dall'età di 4 anni. In particolare mi sono dedicato a una famiglia delle cipree, nel rispetto del contesto ambientale. Determinate specie a rischio preferisco vederle in fotografia. Poi ritornerò a dipingere soldatini e implementerò la mia collezione di carte geografiche da Gerardo Mercatore in poi. So che sono buffe ma fanno parte del mio modo di essere. Sto anche scrivendo un libro, che non so se pubblicherò mai, perché non è nel mio ambito.

 

È un libro di fantascienza avventurosa. L'ho iniziato a scrivere sul treno di ritorno da una riunione al ministero a Roma. Internet non funzionava quindi non avevo modo di lavorare e così mi sono messo a scrivere. C'è però una cosa che veramente desidero fare in pensione quando avrò più tempo. Mi sono imbattuto qualche anno fa in una grande risorsa ancora poco sfruttata. Il libro dei morti di Milano, uno dice che allegria! Sì, l'argomento non è allegro ma è importantissimo ai fini della ricerca.

 

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Nel 1452 Francesco Sforza ha imposto, per avere un'informazione immediata sulla peste, che tutti i decessi della città venissero registrati. Età, nome, dove abitavano e il medico che registrava il decesso. Più di un milione e mezzo di dati sulle persone che vanno fino al 1801. Dal punto di vista della storia sanitaria in Milano è un patrimonio di dati incredibile. Questi dati ci daranno importanti informazioni sul futuro. Sapere infatti come sono andate le epidemie in passato ci aiuterà a spiegare e a non commettere gli stessi errori».