DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Estratto dell’articolo di Agnese Codignola per “la Repubblica - Salute”
Dopo l' addio alla ricerca annunciato nei mesi scorsi da colossi come Pfizer, Eli Lilly e Merck, la ricerca pubblica statunitense a sorpresa rilancia, inaugurando un piano monstre che ha solo un paio di precedenti: quello della Guerra al cancro di Nixon del 1971 e quello della mobilitazione contro l' Aids degli anni ' 80.
I finanziamenti al National Institute of Aging (Nia) saliranno infatti, entro il 2019, alla stratosferica cifra di 2,3 miliardi di dollari, con un obbiettivo chiaro: trovare soluzioni diverse da quelle fallimentari proposte finora, tanto sulla diagnosi quanto sulla terapia, con un solo filo conduttore: che le idee siano fresche, e tali da portare ai primi risultati concreti entro il 2025.
È davvero un terremoto quello che ha scosso il mondo di chi fa ricerca sull' Alzheimer, malattia legata all' invecchiamento e quindi in crescita, perché gli studi per decenni si sono concentrati su una sola ipotesi: che all' origine della neurodegenerazione ci fosse una cascata di eventi che porta alla formazione di placche di una proteina chiamata beta amiloide all' esterno delle cellule nervose, e di fibrille di un' altra proteina chiamata tau all' interno.
Da questa idea, che nasce dal riscontro di entrambe nel cervello dei malati da parte dello stesso Alois Alzheimer all' inizio del Novecento - il quale avvisava però che non necessariamente erano da considerare come le cause prime della malattia - per anni si sono cercati anticorpi, vaccini e farmaci che neutralizzassero una delle due, o entrambe.
E li si è trovati. Ma non per questo si è trovato nulla che fosse efficace, e per questo negli ultimi anni, tra coloro che avevano preso parte a quegli studi, si è diffusa una sorta di rassegnazione, come se non fosse possibile venire a capo del rebus.
Poi la scossa americana. Come si è arrivati allo sblocco lo spiega bene Arnaldo Benini, professore emerito di Neurologia e neurochirurgia dell' Università di Zurigo, nel suo La mente fragile - l' enigma dell' Alzheimer (Raffaello Cortina editore): « La causa va ricercata nella pigrizia mentale di molte aziende, che si sono accodate a un pensiero dominante senza cercare altre vie, e nella stessa inerzia di tanti ricercatori. Così negli anni si sono ignorati tanto alcuni dati molto chiari quanto il fatto che i risultati clinici non arrivavano mai (…). È chiaro che non si va da nessuna parte se si inizia con un' idea sbagliata della malattia da contrastare».
Ma se non si deve più guardare in quella direzione, dove bisogna dirigere lo sguardo? Risponde Benini: «Le demenze hanno una solida base genetica: su quella si potrà intervenire in futuro. E poi dipendono in misura significativa (per più di un terzo dei casi) dall' epigenetica, cioè dallo stile di vita, e in questo caso è possibile già oggi fare molto, soprattutto per lo stretto legame che c' è con le malattie cardiovascolari e con l' obesità » .
(…)
Altrettanto frustranti sono stati poi i tentativi di definire una strategia di diagnosi precoce. «Fino a quando non avremo strumenti certi - e siamo molto lontani - non è etico proporre esami costosi e invasivi ( ma neppure semplici test cognitivi) non potendo poi prospettare alcun tipo di soluzione»(…).
Tutto da rifare, dunque, tranne una cosa: le residenze pensate per chi ha già una diagnosi, con la quale deve convivere, di solito per anni. (…)
«Sarebbe quanto mai necessario - chiosa l' emerito - concentrare le risorse su queste cose, di cui ci sarà sempre più bisogno. Non dimenticando le cure palliative, oggi proposte solo di rado, ma cui i malati hanno un grande bisogno nelle fasi finali». Aspettando le terapie di domani.
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