DAGOREPORT – NEL NOME DEL FIGLIUOLO: MELONI IMPONE IL GENERALE ALLA VICEDIREZIONE DELL’AISE.…
Enrico Deaglio per “il Venerdì - la Repubblica”
Quando farete – e sarebbe un peccato non metterlo subito in programma – un tour sentimentale del profondo sud degli Stati Uniti (qui c’è il blues, la letteratura, la rivoluzione contro la schiavitù, il jazz, Katrina) potreste, per esempio, scendere in verticale da Memphis, Tennessee (giusto per respirare un po’ di Elvis), attraversare il lunare Delta ormai deserto e costeggiare il Mississippi, fino al grande porto di New Orleans, che alcuni chiamano con disprezzo il luogo più corrotto degli Usa, ma altri – secondo me, giustamente – «il meno corrotto dei Caraibi».
Dovunque andrete, comunque, un incredibile tasso alcolico vi farà compagnia: è parte del paesaggio, del suo mistero e del suo peccato. E vi chiederete: senza birra, bourbon, rhum, cognac il blues, la guerra civile, i capolavori letterari sarebbero stati possibili?
State ora viaggiando nella deserta pianura lungo il Mississippi, dove alcuni milioni di schiavi raccoglievano cotone o tagliavano la canna da zucchero. Per loro era proibito bere alcol, così come era proibito spostarsi senza un permesso, vivere da soli, riunirsi in gruppo e ascoltare musica. Ma era pratica comune intossicare di alcol fortissimo e scadente gli schiavi durante il periodo più duro del raccolto o nelle festività: il nero ubriaco era preferibile a un nero sobrio capace di organizzare la fuga verso nord.
Dopo la loro liberazione, i neri ebbero il permesso di muoversi e qualche soldo per farsi una birra; la prima musica libera nacque in baracche di legno, dove i corpi si muovevano nelle «danze immonde» e l’alcol dilagava nelle parole dei blues; il booze, che serve per dimenticare le solite cose: miseria, la fine di un amore, un’ingiustizia.
Ma tracannavano anche i bianchi, forse per senso di colpa. In un tempo in cui l’ubriachezza era segno di inferiorità morale, Ulysses Grant – il capo dell’esercito di Lincoln, l’uomo che inventò la feroce guerra moderna, e che per questo divenne Presidente – iniziava la giornata con un bicchierone di Bourbon sotto la tenda. Venne chiesto a Lincoln di sostituirlo. E lui, che pure era molto morigerato, rispose: «Mi piacciono i risultati che ottiene. Manderò una cassa di Bourbon a tutto lo Stato maggiore».
Nemica dell’alcol è sempre stata la Chiesa e con lei, i movimenti politici evangelici. Ancora oggi, negli Stati del sud ci sono contee wet e contee dry, ovvero quelle dove è permessa la vendita e il consumo di alcolici, o è vietata. In Mississippi, per esempio, su 82 contee, 34 sono dry, per cui c’è un’utile app. Con risultati spesso grotteschi: il traffico nel weekend dalle contee dry verso quelle wet, provoca impennate di incidenti stradali; le virtuose contee dry, che non raccolgono l’Iva sull’alcol, si impoveriscono.
Il tutto mentre nel Delta, il turismo musical-gastronomico è l’unica cosa positiva nella crisi. Se cercate un epicentro blues alcolico: Clarksdale, e fate tappa al Ground Zero di Morgan Freeman. Oppure fate tappa nel paradosso. È un ristorante, fondato nel 1933 da immigrati italiani, il Lusco’s di Greenwood. Ci vengono addirittura, con gli aerei privati, dalla vicina Louisiana. Però Lusco’s non può servire vino né birra, nessun tipo di alcolico, perché il locale è a meno di 150 metri da una chiesa.
Ma se il cliente porta il proprio, può berlo. E dunque il cliente deve attraversare la strada e suonare al citofono di una stamberga. Entra e si trova davanti una garritta con un vetro antiproiettile e una grata. Ordina e paga cash il suo vino rosso francese, in mezzo a guardie del corpo dai colossali tatuaggi e una fila di zombies col cappuccio che raccattano spiccioli per comprare la vodka. Lusco’s e la sua appendice sono l’esempio di perdurante segregazione. I poveri (i neri qui hanno livelli di miseria incredibili) non hanno accesso ai bar. Ma li vedete – ombre ondeggianti, paurose – nei pressi delle stazioni di servizio, dei supermarket.
Comprano casse di birra, o magnum di vodka in recipienti che riproducono un kalashnikov o un teschio. Consumeranno a casa, se ce l’hanno, o in una crack house o in un casinò davanti alle slot machines. Il giorno dopo, molte delle loro facce saranno sulla prima pagina del giornale locale.
Quando arriverete a New Orleans, tutto cambierà. La città, che è sempre stata diversa – francese, caraibica, siciliana, irlandese, liberal e mafiosa – si è sviluppata con un’economia propria. Se a Detroit fanno auto e nella Silicon Valley computer, a New Orleans producono le migliori sbronze d’America. Ti dicono: «Qui abbiamo una legge che dice che si può bere per strada, negli uffici, sui mezzi di trasporto, nei musei». E mai una legge ha avuto risultato più appariscente: New Orleans è una città che cammina sorseggiando cocktail.
Si comincia a bere nel bar, ma poi si continua all’aperto versando il contenuto in un bicchiere di plastica (la go cup), per cui vedrete uomini che sorseggiano rhum andando in ufficio, impiegate a un tavolino col primo Bloody Mary alle dieci di mattina (esiste anche il Virgin Mary senza vodka; ma il cameriere dice che non ci sono vergini in città); ai vecchi banconi di zinco una pinta di birra gelata si accompagna al piatto di 24 ostriche crude.
I cocktail della città riflettono il passato francese, a base di cognac o champagne (alcuni locali sono veri e propri templi, come il bar del Roosevelt, del Monteleone, del Royal Orleans), o la cultura dello zucchero, con rhum e melassa. Ogni notte, il quartiere francese si trasforma in un lupanare.
Appena fuori, in piccoli bar di paese (se vi capita, andate a Mamou, parrocchia di Lafayette), donne mature si riuniscono la domenica mattina per bere birra e ballare il zydeco. Si dice che l’euforia esorcizzi la paura della morte improvvisa, le epidemie di febbre gialla rimaste nella memoria. O forse è l’incombenza della natura, lo spettro di Katrina che ha sommerso la città, la malinconia per aver perso la guerra. Per lo scrittore Walker Percy, la fiaschetta di bourbon (neat) era la madeleine di Proust.
E adesso ritornate all’inizio del viaggio. Oxford, Mississippi, la storica città universitaria, patria del premio Nobel William Faulkner, lo scrittore che è «il» sud – ovvero il perenne trauma della sconfitta, il gentleman che scriveva come Joyce e che inventava territori fantastici, che sarebbero stati poi quelli di García Márquez. Nel piccolo museo nella sua casa, un cartello informa che la vedova, il giorno dopo la sua morte, installò l’aria condizionata nella camera da letto, cui il marito si era sempre opposto. Il suo scrittoio, la sua frase famosa.
«Per scrivere, ho bisogno di questo posto, della mia pipa e di un po’ di whisky». Faulkner, completamente alcolizzato, morì nel luglio del 1962. Tre mesi dopo l’Università venne attraversata dai più violenti scontri razziali e il presidente Kennedy schierò 40 mila uomini della Guardia Nazionale per fare varcare allo studente nero James Meredith i portoni dell’Ole Miss. Chissà se sarebbe uscito di casa, Faulkner, se fosse stato ancora vivo.
bourbon street drinks new orleans
Oggi Oxford è una pacifica città ricca. Le case sono ornate di ortensie, gerani, bouganville. Gli studenti, ogni settimana, si ubriacano nella Square. La tomba di Faulkner, in un anonimo prato, è meta di pellegrinaggi. Si viene, si beve un Jack Daniels, si lascia la bottiglia con appena un po’ di liquore per lui. Una delle sue frasi più famose resta: «Civilization began with distillation». Dopo, il tempo finì.
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