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Giampaolo Visetti per “la Repubblica”
La prima Miss di colore nella storia del Giappone spacca il Paese e apre un dibattito senza precedenti sulla sua inossidabile xenofobia strisciante. Ariana Miyamoto, 20 anni, ha sbaragliato 44 concorrenti ed è stata incoronata Miss Universo Giappone. L’anno prossimo rappresenterà la bellezza del Sol Levante nella finale per il titolo 2015.
A scatenare i «puristi della razza», il fatto che Ariana non ha i caratteri somatici nazionali. È nata a Sasebo, prefettura di Nagasaki, sua madre è giapponese, ma il padre da cui ha ereditato l’aspetto è afroamericano. Il profilo meticcio la distingue dalle connazionali: pelle mulatta, capelli ricci, alta e formosa. Dopo il trionfo, in diretta tivù, ha raccontato di aver già conosciuto il «sapore amaro del razzismo giapponese».
Finito il liceo negli Usa, è tornata in patria per fare la modella. Si mantiene lavorando in un bar, dove i clienti la appellano “haafu”. Il termine dispregiativo, dall’inglese “half”, definisce chi ha solo metà sangue giapponese nelle vene. Chi la conosce, assicura che Ariana è al contrario “kenbi saishoku”, ossia una donna benedetta sia dall’intelligenza che dalla bellezza: ama la calligrafia tradizionale, cucina i piatti “kaiseki”, icona dell’estetica nipponica, visita gli antichi villaggi in sella alla sua moto.
Migliaia, sui social network, i complimenti e i messaggi di sostegno alla sorprendente scelta della giuria. I fans affermano che «essere di un’etnia diversa non rende un individuo meno giapponese». Il crescente popolo nazionalista della “pura razza” si è invece scatenato contro la Miss “haafu”, sentenziando che «ha troppo sangue nero per poter rappresentare il Giappone».
Lo scontro potrebbe essere archiviato come l’estremo sfogo di un Paese invecchiato, sempre più spaventato da concorrenza e globalizzazione. La frivolezza demodè di un concorso di bellezza cela invece una realtà molto più seria. La Miss giapponese afroamericana viene attaccata mentre Nagasaki, la sua culla, si appresta a ricordare i 70 anni dalla bomba atomica sganciata dagli Usa alla fine della seconda guerra mondiale.
L’ambasciatrice statunitense a Tokyo, Caroline Kennedy, figlia del presidente assassinato JFK, ha ricevuto minacce di morte da un giapponese che nell’isola di Okinawa si oppone alla base militare americana. La “nera” Michelle Obama, nel corso della sua prima visita all’estero da first lady senza il marito presidente, a Tokyo ha incontrato la famiglia imperiale e il premier Shinzo Abe, rivolgendo un appello per l’istruzione femminile e la parità di genere.
Dietro il Giappone che rifiuta la sua Miss meticcia si cela il razzismo di una nazione dove gli stranieri, quasi tutti coreani, sono solo il 2% della popolazione. Ma emerge prima di tutto il crescente sentimento anti-Usa, simboleggiato dal sostegno alla riforma della «punitiva» Costituzione pacifista, imposta da Eisenhover nel 1946.
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LA NEO AMBASCIATRICE USA IN GIAPPONE CAROLINE KENNEDY A TOKYO
Ariana Miyamoto non ha il volto classico di una geisha: paga però il conto che il ventre del Paese vuole oggi riaprire con chi, tragicamente, ha cercato invano di costringere il Giappone a confrontarsi con gli errori della sua storia.
CAROLINE KENNEDY
Caroline Kennedy
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