DAGOREPORT – DONALD TRUMP HA IN CANNA DUE ORDINI ESECUTIVI BOMBASTICI, CHE FIRMERÀ IL GIORNO DOPO…
Marco Imarisio per il "Corriere della Sera"
A guardare nei ricordi, viene in mente l'ultimo momento di quiete prima della tempesta. Erano le nove del mattino di un venerdì soleggiato. Il colonnello dei Carabinieri Giorgio Tesser e il questore di Genova Francesco Colucci si erano presentati nella hall dell'hotel di Genova che raccoglieva i giornalisti venuti da tutto il mondo. Per «un caffè tranquillizzante», questa la frase che resta su un taccuino ormai scolorito, che doveva fugare i timori e le ansie che i media diffondevano «con inspiegabile esagerazione».
Parlò solo il militare, ex giocatore di rugby. «Fidatevi, non succederà nulla». Strizzando l'occhio, spiegò che era recita, che i Black bloc avrebbero fatto un po' di casino, ma con gli altri, gli organizzatori del grande corteo che sarebbe sceso nel centro della città partendo dallo stadio Carlini, c'era un accordo. Li avrebbero fatti sfilare, avrebbero consentito a qualcuno di violare la zona rossa che proteggeva gli otto grandi della terra giunti nel capoluogo ligure per discutere tra loro.
Dietro di lui, il questore che non aveva pronunciato parola, si mise la mano nella tasca dei pantaloni e procedette a un gesto scaramantico che rivelava i suoi dubbi. Appena fuori dall'hotel, i Black bloc stavano cominciando a picconare l'asfalto per fare scorta di pietre e sassi. Sono passati vent' anni, da quei giorni. Il G8 di Genova fu il punto d'arrivo e l'inizio della fine del movimento no global, chiamato così perché si batteva contro la globalizzazione. Era così grande che aveva molte anime, forse troppe.
vincenzo vecchi al g8 di genova
All'interno della sigla del Genoa Social Forum (GSF) confluirono associazioni che operavano in campi molto diversi l'uno dall'altro, unite però da una visione condivisa, ecologista, anticapitalista, contro il potere delle multinazionali e la perdita di controllo del singolo individuo rispetto ai meccanismi spesso oscuri della grande finanza mondiale. Lo slogan valido per tutti era che «un altro mondo è possibile».
Ci arrivarono male, i no global, a quell'appuntamento così in anticipo sui tempi di una esperienza fatta di embrioni che ancora dovevano coagularsi in una sola entità. Nell'anno precedente il G8 di Genova, divenne chiaro che il movimento era diventato veicolo anche di soggetti indesiderati, come il cosiddetto Blocco nero, termine che in origine indica una tattica di protesta violenta. I segni che qualcosa di brutto sarebbe potuto accadere erano ovunque.
Ma il G8, la riunione annuale dei grandi della terra, era ormai diventato una ossessione. Bisognava esserci, anche se ormai si parlava quasi solo di ordine pubblico. I capi del GSF caddero nella trappola, che era anche mediatica. Dichiararono guerra, in senso figurato, imposero condizioni, esercitando un potere che non avevano. Se questa è la premessa, quel che accadde dopo non ha alcuna giustificazione. Esistono i torti di una parte, lo Stato italiano, e le ragioni delle vittime, al netto dei loro peccati di presunzione.
Ma quella mattina, le manifestazioni sembravano andare come previsto dal colonnello dei Carabinieri. I Black bloc avanzavano devastando ogni cosa sul loro percorso. Le pattuglie li accompagnavano scansandosi al loro passaggio. Tutto cambia all'improvviso nel primo pomeriggio. Come se il copione fosse stato riscritto senza avvisare la maggior parte degli attori. A poca distanza dai Black bloc, le quarantacinquemila persone che stanno scendendo dallo stadio Carlini vengono attaccate da una carica laterale dell'Arma che spezza il corteo.
È un attacco violentissimo, che ancora oggi non trova alcuna spiegazione plausibile. Cosa è successo per giustificare un tale cambio di strategia? L'unica cosa certa è che mentre venivano trasmesse in mondovisione le immagini delle devastazioni dei Black bloc, l'allora vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini si presenta alla caserma San Giuliano dei Carabinieri, una visita non prevista. Alle 14.58 dalla centrale operativa dei «cugini» della Polizia si sentono le bestemmie del dirigente genovese che doveva coordinare le varie mosse delle pattuglie. «Noo... hanno caricato l'altro corteo... I Carabinieri non dovevano andare in via Tolemaide, che c... ci fanno lì, ma perché attaccano?».
La domanda non ha ancora trovato risposta. Muore un ragazzo di 23 anni, ucciso in piazza Alimonda da un colpo di pistola sparato da una giovane recluta rimasto intrappolato in una Jeep assediata dai manifestanti inferociti. Aveva 23 anni, si chiamava Carlo Giuliani. In quello che ormai è diventato un delirio di violenza, anche lui lancia pietre, raccoglie un estintore, sta per scagliarlo verso la Jeep blu. Muore sul colpo. Il suo corpo verrà sfregiato da alcuni ufficiali desiderosi di dissimularne la causa della morte. La faccia che talvolta riaffiora sui muri delle città italiane è la sua. Carlo non era un no global, ne sapeva poco di quella storia.
rod richardson al g8 di genova 2001
Ma ne diventerà un simbolo. Il peggio è accaduto, il peggio deve ancora accadere. Il giorno seguente, durante la manifestazione di chiusura del GSF i Black bloc infiltrano il corteo. La Polizia, alla quale è stato affidato il compito di sostituire i Carabinieri, li insegue e non fa distinzioni tra manifestanti pacifici e infiltrati. A sera, sembra finita. Invece no. All'interno della scuola Diaz ci sono un centinaio di no global che stanno trascorrendo la loro ultima notte a Genova.
L'irruzione del reparto mobile di Roma guidato da Vincenzo Canterini verrà ricordata con la definizione data al processo da uno dei suoi uomini, una macelleria messicana. Una spedizione punitiva, una vendetta. Il tentativo maldestro di giustificare quell'intervento fabbricando prove false sarà oggetto di una lunga vicenda processuale che si concluderà con la condanna dell'intera catena gerarchica della Polizia per falso, mentre le accuse di lesioni sono andate prescritte.
Per le violenze della Diaz e per le sevizie accadute nella caserma di Bolzaneto, dove venivano portati i manifestanti arrestati, pagheranno in pochi. A quell'epoca non esisteva ancora nel nostro Codice penale il reato di tortura, l'unico adatto a definire ciò che accadde. Sono passati vent' anni, e non è vero che non sappiamo nulla. Almeno esiste una percezione chiara di chi fu l'aggredito e di chi era l'aggressore. Il movimento no global sopravvisse alla ferita cambiando pelle.
violenze nella caserma di bolzaneto
Fu obbligato a farlo, perché due mesi dopo ci fu l'undici settembre di New York. Iniziò la stagione delle grandi mobilitazioni contro la guerra. Poi ognuno andò per la sua strada, disperdendosi in mille rivoli. L'eredità di quei giorni è nella legge che introduce il reato di tortura, approvata nel luglio del 2017, sedici anni dopo. Genova 2001 non è stato l'inizio di nulla, anche se qualcuno sostiene che quei fatti hanno aperto la strada al populismo.
Al massimo, ha segnato l'inizio di un modo di fare politica, o di un modo della politica di commentare ogni vicenda, dove i fatti vengono ignorati e si può dire ogni cosa e il suo contrario. E allora, perché raccontare questa storia un'altra volta? Forse, per quell'esercizio necessario della memoria che in Italia viene quasi sempre trascurato. Perché fu una pagina ignobile della democrazia, che allontanò dalla partecipazione alla vita pubblica una intera generazione. E perché ricordare è l'unico modo possibile per dire che non deve accadere mai più.
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