DOMANDE SPARSE SUL CASO ALMASRI – CON QUALE AUTORIZZAZIONE IL TORTURATORE LIBICO VIAGGIAVA…
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera”
La Procura antimafia di Palermo che imbastì il processo sulla presunta trattativa tra Cosa nostra e lo Stato non esiste più da tempo. Tra i pubblici ministeri che hanno rappresentato l'accusa nel dibattimento di primo grado solo uno continua a fare il magistrato in servizio: Francesco Del Bene, che adesso lavora alla Direzione nazionale antimafia e della vicenda conclusasi con le assoluzioni dell'altro ieri ha sempre parlato solo nelle aule di giustizia.
Degli altri, l'ex procuratore aggiunto Vittorio Teresi è andato in pensione, Nino Di Matteo siede al Consiglio superiore della magistratura e Roberto Tartaglia è diventato prima consulente della commissione parlamentare antimafia e poi vicedirettore delle carceri. Antonio Ingroia, il primo procuratore aggiunto a guidare il pool , ha da tempo lasciato la toga da magistrato per indossare quella di avvocato, dopo la poco fortunata avventura politica da candidato premier nel 2013.
Del gruppo originario che condusse l'inchiesta c'erano altri due pubblici ministeri tuttora in servizio: Lia Sava, trasferitasi presto a Caltanissetta dove ha fatto il procuratore aggiunto e ora è procuratore generale; e Paolo Guido, l'unico rimasto in carica a Palermo. Ma nel 2012, al momento di chiudere le indagini preliminari, preferì non firmare l'atto conclusivo, perché in disaccordo su alcuni punti. In particolare sul coinvolgimento dell'ex ministro Calogero Mannino e di quello (strettamente connesso) dell'ex generale dei carabinieri Antonio Subranni, già comandante del Ros. Gli elementi a carico dei due, che secondo l'accusa innescarono la trattativa tra rappresentanti dello Stato e rappresentanti della mafia, non erano a suo giudizio sufficienti a giustificare un processo.
Per Mannino pesava anche l'assoluzione dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa, come per l'ex senatore Dell'Utri per i fatti successivi al 1992. Oggi Paolo Guido è procuratore aggiunto di Palermo, coordina le indagini antimafia sul territorio di Trapani e Agrigento e le correlate ricerche dell'ultimo grande boss latitante, Matteo Messina Denaro. Sulla sentenza d'appello non vuole fare commenti, ma le sue riserve di nove anni fa sembrano coincidere con i motivi che hanno portato alle assoluzioni.
nino di matteo roberto tartaglia
L'uscita di scena di Mannino potrebbe avere pesato sul verdetto d'appello per gli imputati esterni a Cosa nostra; a cominciare proprio da Subranni, che poco c'entrava con il nocciolo della «trattativa», i contatti dei carabinieri con l'ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. Anche il procuratore è cambiato. L'arrivo di Francesco Lo Voi risale al 2014, e quando fu scelto dal Csm qualcuno sospettò che la nomina fosse dovuta anche alle sue posizioni distanti rispetto all'inchiesta Stato-mafia. Che però nel frattempo era già approdata in aula, dove i pm di udienza sono liberi rispetto al capo dell'ufficio. E durante la sua gestione, a parte uno strappo con Di Matteo al momento del trasferimento di quest' ultimo alla Dna, non ci sono stati ostacoli frapposti al processo.
Anzi, Tartaglia era diventato uno dei pm di punta della Procura, e le intercettazioni del boss Giuseppe Graviano confluite nel dibattimento furono avviate sotto la sua guida. Né si sono fermate le inchieste su mafia e politica, compresa quella finita a Roma sui presunti legami dell'ex sottosegretario leghista Siri con un imprenditore considerato vicino a Messina Denaro. Il 20 aprile 2018, dopo le condanne in primo grado, il « pool trattativa» si riunì nell'ufficio di Lo Voi per commentare la vittoria. L'altro ieri è arrivata la sconfitta, ma in Procura non si registrano prese di posizione. Né dai pm in servizio né da coloro che sostennero l'accusa.
vittorio teresi e nino di matteo
A parte Ingroia, il primo a cambiare mestiere. Che continua a rivendicare non solo la legittimità, ma anche la giusta impostazione di indagine e processo: «La condanna dei mafiosi conferma l'esistenza della trattativa e del papello di richieste trasmesso a uomini dello Stato, il ribaltamento della prima sentenza è parziale e riguarda interpretazioni giuridiche di fatti accertati. La condanna dei mafiosi dimostra che il processo si doveva fare. Auspico un ricorso in Cassazione».
Ma prima di annunciarlo, in Procura generale vogliono leggere le motivazioni della sentenza d'appello. Come avvocato di parte civile, Ingroia partecipa al processo di Reggio Calabria chiamato 'Ndrangheta stragista, dove il boss Graviano è stato condannato per l'omicidio di due carabinieri nel gennaio 1994, collegato alle vicende palermitane. A ottobre comincerà l'appello. La storia della trattativa Stato-mafia non è finita.
nino di matteo 2lia savaantonio ingroiaroberto tartaglia 7paolo borsellino antonio ingroia
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