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Fulvia Caprara per “La Stampa”
La risorsa, oggi, per Paolo Sorrentino, può essere anche in quella maturità che negli ultimi tempi ha spesso dichiarato di aver raggiunto: «Mi sento invecchiato - dice paragonandosi ai tempi dell'Oscar alla Grande bellezza -, però, fortunatamente, oggi ho un rapporto meno nervoso con le cose, sono più pacificato, e questo è uno dei pochi benefici legati all'avanzare dell'età. Il che non vuol dire essere meno appassionati, solo che adesso mi sento più pronto ad accogliere quello che viene, nel bene e nel male, senza farmene un cruccio. Quando sono andato agli Oscar con La grande bellezza ero più agitato».
Alla fine di un pomeriggio frenetico di messaggi e felicità, Sorrentino si sottopone a un fuoco di fila di domande cariche di speranza: «Non mi aspettavo la candidatura - spiega -, ma certo ci speravo. Mi faceva piacere entrare di nuovo nella cinquina. Entrare una volta può essere anche un caso, entrare due volte è stupendo. Sono molto contento, perché è una soddisfazione personale, perché il film è per me molto importante, perché sono stato quattro mesi avanti e indietro per gli Stati Uniti e, in tempi di Covid, fare tanti viaggi e incontrare tante persone è stato abbastanza faticoso».
In questa avventura così profondamente personale, il sentimento predominante è «la commozione. Questo film mi ha commosso in tutte le sue fasi, quando l'ho scritto, quando l'ho girato e montato, quando l'ho mostrato. Gioisco commuovendomi e non esultando». La competizione si preannuncia dura: «Ci sono un sacco di film molto buoni, non è entrato un grande regista come Farhadi che ha girato un film molto importante, e questo dimostra che il gioco era complicato e inatteso. Il favorito è Drive My Car, candidato anche per miglior film e miglior regia, e io, stavolta, nel non essere favorito, mi sento molto a mio agio. Per usare una metafora calcistica, mi piace molto di più partire dalla panchina».
Il calcio c'entra sempre, nella storia su Instagram dove Sorrentino ha postato una foto di Maradona («Ho sul telefono una cartella di foto di Maradona, non ricordavo di avere anche quella, l'ho messa perché mi è sembrato un giochino da fare») e anche nelle valutazioni sull'Italia che torna in gara tra i migliori film stranieri dopo l'Oscar alla Grande bellezza: «Entrare è anche frutto di convergenze fortuite, non vuol dire che, negli anni precedenti, non ci siano stati film altrettanto buoni, che potevano andare agli Oscar. È un gioco e, come succede nelle partite di calcio, se capita di perdere all'ultimo minuto non è perché una squadra è più forte dell'altra, ma perché succede qualcosa di imprevedibile».
Sorrentino - e' stata la mano di dio
La vera vittoria, aggiunge l'autore, «è essere entrati in un gruppo ristretto di registi che vengono considerati bravi, per me questa è la più grande soddisfazione». L'esperienza, come sempre, aiuta, anche se non è facile decifrarne il senso: «Non ho capito molto da quello che è successo in passato, non mi sembra ci siano regole cui adeguarmi e infatti mi fa molto sorridere quando i miei detrattori dicono "questo è un film concepito per vincere l'Oscar". Sarebbe bellissimo avere a disposizione una formula, ma non ce l'ho io e non ce l'ha nemmeno Steven Spielberg che conosce benissimo il meccanismo. Le regole sono misteriose, se ho capito bene quest' anno le persone che votano sono diecimila, è impossibile rintracciare una regola fissa che attraversi diecimila teste».
Paolo Sorrentino sul set de La Mano di Dio
Dei rivali diretti, quelli della stessa cinquina, «non è di buon gusto» parlare, ma se si chiede a Sorrentino qual è il suo titolo preferito tra quelli in corsa nelle altre categorie risponde senza incertezze Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson: «Nella sua semplicità, nella sua apparente convenzionalità, è un capolavoro. Un film complicato da fare che riesce a raggiungere un tasso altissimo di emozione e leggerezza».
Tra i critici che hanno recensito È stata la mano di Dio c'è uno fra gli attori più grandi della storia del grande schermo: «Ho provato felicità pura, per me, per quelli della mia e di varie generazioni, De Niro è una specie di divinità. È anche citato nel film, perché il protagonista insegue vanamente l'occasione di vedere C'era una volta in America. Mi sembra che quell'articolo sia il segno di un giro che si compie, il "me" adulto ha avuto la possibilità di incontrare De Niro e addirittura di leggere quello che ha scritto sul film. De Niro è il cinema, è come essere incoronati da uno dei re del cinema».
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