DAGOREPORT – MATTEO FA IL MATTO E GIORGIA INCATENA LA SANTANCHÈ ALLA POLTRONA: SALVINI, ASSOLTO AL…
Gian Guido Vecchi per il “Corriere della Sera”
Le croci sulle tombe sono colorate di penne e simboli dei popoli nativi. Francesco attraversa la soglia del cimitero dei Cree, sospinto in carrozzella tra i prati, le mani giunte, l'aria assorta. Prima delle parole, prima di dire la «vergogna», l'«indignazione» e «il grido di dolore, un urlo soffocato che mi ha accompagnato in questi mesi», la «memoria sanguinante» di «un errore devastante, incompatibile con il Vangelo di Gesù Cristo», prima del mea culpa solenne davanti agli anziani e i sopravvissuti di Prime Nazioni, Métis e Inuit, «chiedo umilmente perdono per il male commesso da tanti cristiani contro le popolazioni indigene: di fronte a questo male che indigna, la Chiesa si inginocchia dinanzi a Dio e implora il perdono per i peccati dei suoi figli», prima di tutto questo c'è il silenzio, una lunga preghiera a capo chino, il Papa che si toglie lo zucchetto bianco, la mano sul cuore.
Il grigio del cielo, il giallo dei campi di colza, vento e un po' di pioggia. I nativi lo attendevano da anni e nel parco di Maskwacis, le «colline dell'orso», sono arrivati in migliaia da tutto il Paese, con vesti e copricapi tradizionali. Si vedono volare due aquile e, spiegano, è un segno importante. Randy Ermineskin, capo della Nazione Cree, dice: «Ho frequentato la scuola residenziale qui, come i miei genitori. So che sono con me, che mi stanno guardando».
Wilton Littlechild, capo dei Montana, parla fuori dalla scuola: «Le parole del Papa sono già storia, è l'inizio del cammino di riconciliazione di cui ha parlato». Del vecchio collegio è rimasto ben poco, in palestra ci sono le foto di classe di bimbi del secolo scorso, cravatte e vestitini a fiori per l'occasione, suore e preti sorridono ma gli alunni hanno gli sguardi seri come i sopravvissuti che ora ascoltano il Papa: «Sono qui perché il primo passo di questo pellegrinaggio penitenziale è rinnovarvi la richiesta di perdono e dirvi, di tutto cuore, che sono profondamente addolorato: chiedo perdono per i modi in cui, purtroppo, molti cristiani hanno sostenuto la mentalità colonizzatrice delle potenze che hanno oppresso i popoli indigeni». Qualcuno piange, molti applaudono.
«Chiedo perdono per i modi in cui molti membri della Chiesa e delle comunità religiose hanno cooperato, anche con l'indifferenza, a quei progetti di distruzione culturale e assimilazione forzata dei governi dell'epoca, culminati nel sistema delle scuole residenziali, con conseguenze catastrofiche».
Enti e congregazioni cattoliche gestivano 66 delle 139 scuole aperte dal governo tra il 1831 e il 1996. Circa 150 mila bambini furono strappati alle loro famiglie e case, la politica per gli «affari indiani» di annientamento delle culture native: botte a chi non parlava inglese, malnutrizione ed epidemie, violenza e abusi, dai tremila ai seimila morti, la scoperta di fosse comuni. Francesco cita Elie Wiesel: «È giusto fare memoria, perché la dimenticanza porta all'indifferenza e "l'opposto dell'amore non è l'odio, è l'indifferenza"».
La richiesta di perdono «è solo il primo passo», occorre «una seria ricerca della verità sul passato». Alla fine, restituisce i mocassini da bimbo che i nativi, in aprile, gli avevano portato come un pegno in Vaticano. E i capi gli fanno indossare un copricapo tradizionale: l'omaggio più grande.
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