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Estratto dell'articolo di Luigi Ferrarella per www.corriere.it
Il complicato quadro psichiatrico di Alessia Pifferi non è tale da farne scemare in maniera significativa la capacità di intendere e volere né da minarne la capacità di stare consapevolmente in giudizio: è il risultato della perizia psichiatrica d’ufficio disposta quattro mesi fa dalla Corte d’Assise di Milano sulla 38enne imputata di omicidio volontario pluriaggravato per aver lasciato la figlia di 18 mesi, Diana, sola in casa, con appena «due biberon di latte, due bottigliette d’acqua e una di “teuccio”», dal 14 al 20 luglio 2022, quando fu trovata morta per disidratazione.
Il suo essere pienamente capace di intendere e volere le toglie dunque la possibilità di poter contare su questa specifica riduzione di pena in caso di condanna per un reato che, per come è attualmente contestato dalla Procura (omicidio volontario aggravato) può comportare l’ergastolo.
Il deficit cognitivo
Nello scorso ottobre lo psichiatra Marco Garbarini, consulente del difensore Alessia Pontenani, aveva prospettato […] che Pifferi scontasse un «deficit di sviluppo intellettivo di grado moderato» che secondo la difesa non le avrebbe fatto provare empatia e accorgersi dei bisogni e della sofferenza degli altri; che non le avrebbe fatto prevedere e collocare nel tempo le conseguenze dei propri atti; e che l’avrebbe resa suggestionabile se incalzata dalle domande.
Questo quadro psicologico era parso sposarsi con l’interrogatorio in aula di Pifferi, specie laddove si era rivolta al pm con un «io le chiedo gentilmente di non sgridarmi», subito dopo aver raccontato di avere «lasciato Diana sola altre volte, e di solito rientravo subito l’indomani. Pensavo che il latte le bastasse».
«Non ci sto ad essere preso in giro — aveva reagito in aula il pm De Tommasi —, la signora non ha alcun problema mentale e ha avuto un atteggiamento scellerato nei confronti della figlia»: per il pm, «con un quoziente intellettivo di 40 lei non avrebbe dovuto essere in grado di dirci nulla, né di formulare accuse contro il personale di polizia», e invece nel processo ha dato «risposte chiare» ed è apparsa consapevole di ciò che ha fatto «quando ha detto che a volte lasciava da bere alla piccola per la sua sopravvivenza». La Corte d’Assise, presieduta da Ilio Mannucci Pacini, aveva ritenuto la perizia psichiatrica «necessaria»
[…]
l’esito di questa perizia d’ufficio non ha alcun riverbero diretto sulla invece differente questione (sia nella sostanza sia nella forma) dell’indagine «parallela» al dibattimento proprio sugli incontri tra le due psicologhe che lavoravano a San Vittore e la detenuta Pifferi, Paola Guerzoni e Letizia Marazzi.
[…] il pm De Tommasi un mese fa ha infatti indagato le due psicologhe insieme all’avvocata Pontenani: le ha intercettate e perquisite per l’ipotesi di falso ideologico e favoreggiamento, ravvisando in loro un atteggiamento non di «descrizione clinica», ma di «estrapolazione deduttiva di una vera e propria tesi difensiva», anzi «una vera e propria attività di consulenza difensiva non rientrante nelle competenze delle psicologhe», finalizzata a «creare, con false attestazioni sullo stato mentale della detenuta, le condizioni per tentare di giustificare la somministrazione del test psicodiagnostico Wais» fuori da «buone prassi di riferimento» e con «esiti incompatibili con le effettive caratteristiche psichiche della detenuta». […]
[…] perizia psichiatrica […] ora ha dato un esito diverso da quello sperato dalla difesa, dall’inizio del dibattimento alle prese con l’evidente rischio che l’imputazione di omicidio volontario, appesantita dalle tre aggravanti dell’aver agito nell’ambito del rapporto genitoriale, per futili e abietti motivi, e con premeditazione, possa determinare una condanna all’ergastolo.
La perizia d’ufficio in sé non vincola le prossime decisioni della Corte, ma, con lo sfarinarsi della prospettiva di una incapacità totale o almeno parziale di intendere e volere, alla difesa resta come obiettivo improbo quello di persuadere i giudici a scendere sino al reato di maltrattamenti nella forma della morte del maltrattato come conseguenza di un evento non voluto dal maltrattante, con pena da 12 a 24 anni: una soluzione che, riconosciuta di recente dalla Corte d’Appello a Milano nel controverso caso di un bimbo rom di due anni morto a causa delle protratte percosse del padre, é stata però lì appena bocciata dalla Cassazione. La consulenza tecnica del perito dei giudici verrà discussa nel contraddittorio tra le parti nella prossima udienza del 4 marzo.
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