DAGOREPORT - L’ASSOLUZIONE NEL PROCESSO “OPEN ARMS” HA TOLTO A SALVINI LA POSSIBILITA’ DI FARE IL…
Giulia Mietta per corriere.it - Estratti
All’indomani del 25 novembre, sulla violenza contro le donne, è già stato detto tutto e in Consiglio comunale a Genova l’ordine del giorno sul tema viene discusso con inerzia. Fino a quando Francesca Ghio, 31 anni, consigliera di opposizione con i Rossoverdi, inizia il suo racconto: «Avevo 12 anni, ero un’adolescente della Genova bene, e sono stata violentata fisicamente e psicologicamente tra le mura di casa mia, ripetutamente, per mesi».
L’aula, inizialmente, non coglie. Tutti pensano che la consigliera stia leggendo il diario di qualcun altro. È lei a chiarire: «Sono io quella 12enne». La testimonianza è potente, drammatica. Ghio racconta degli effetti negli anni di quella violenza, da parte di un dirigente d’azienda che solo oggi, a distanza di tanto tempo, forse si riconoscerà nelle cronache e forse si vergognerà dei suoi gesti.
Sono passati quasi vent’anni da quei fatti e Francesca Ghio è cresciuta, si è laureata, ha fatto strada nella politica prima come portavoce dei Fridays For Future, poi come consigliera comunale, oggi ha un compagno e una figlia, Artemisia, come Artemisia Gentileschi, la pittrice divenuta simbolo femminista anche per via della discussa «stanza dello stupro» allestita lo scorso anno in una mostra a Genova.
«È stato mentre cullavo mia figlia, questa mattina - racconta Francesca Ghio - mentre mi perdevo nei suoi occhi, che ho deciso che era il momento di intervenire in questo modo su questo argomento e di riaprire questa cicatrice, neppure mia madre sapeva nulla, ma il punto non sono io, la mia storia è la storia di una donna su tre, il mio corpo è politico, è bandiera, la mia voce in quanto consigliera comunale è la voce di chi non ha la visibilità e la possibilità di parlare».
Chi era questa persona? Un amico di famiglia?
«Una persona di cui credevo di potermi fidare, uno dei nostri “bravi ragazzi”, un giovane manager di una piccola azienda che aveva accesso alla nostra casa, lui mi diceva di stare zitta e che doveva essere il nostro segreto, mentre sottostavo alle sue torture dovevo giurargli di non raccontare niente a nessuno».
Sono passati tanti anni, perché non ha mai denunciato quell’uomo?
«Avevo 12 anni, non sapevo neppure cosa fosse una denuncia, e nel mondo degli adulti non c’era un volto in cui poter trovare rifugio e protezione, ho provato a parlarne anni dopo e mi sono sentita giudicata, iniziavo il discorso e notavo disgusto, e allora dicevo ma no, sto scherzando…»
Le conseguenze psicologiche di quel periodo sono state pesanti, soprattutto durante l’adolescenza…
«Ho iniziato a fumare Malboro, anche se non mi piaceva, mi facevo dei tagli sulle braccia e per anni ho coperto le cicatrici indossando felpe anche in estate, nessuno mi chiedeva perché, ero arrivata a colpevolizzarmi».
Perché parlare oggi, pubblicamente, di una vicenda così delicata?
«Perché non posso fare altrimenti, per il mio ruolo pubblico, politico, all’apatia con cui si affronta in tante sedi il tema della violenza sulle donne, ho voluto rispondere con l’empatia, oggi che il mio stato di salute mentale mi consente di raccontare lo faccio per dimostrare che queste cose succedono a noi, alle nostre sorelle, alle nostre amiche, ma serve un messaggio forte per evitare di normalizzare determinate questioni, non si può parlare di educazione all’affettività o di sportelli antiviolenza alzando gli occhi al cielo per la noia, queste cose accadono a tutte, e gli uomini continuano a violentare».
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