DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa”
Oggi si celebrano le udienze dei due principali processi italiani in campo ambientale: a Chieti per la maxidiscarica di rifiuti tossici Montedison di Bussi (19 imputati, 180 anni di carcere chiesti dai pm, richieste di risarcimenti per 2,5 miliardi di euro, prima sentenza a fine anno) e a Taranto per l’Ilva (danni stimati in 30 miliardi, il gup deve decidere se rinviare a giudizio 50 persone). In entrambi viene contestato il reato di disastro doloso, come nel processo Eternit. Magistrati e avvocati si chiedono se ci sarà un effetto a cascata della sentenza della Cassazione.
A Chieti è verosimile che gli avvocati dei manager imputati invochino un’analoga prescrizione anticipata (la Montedison vendette la fabbrica dei veleni nel 2002). Difficile farlo a Taranto, dove i fatti sono più recenti. Analoghe considerazioni si fanno in altri uffici giudiziari impegnati in inchieste su queste materie. Il timore è che, come interpretato dalla Cassazione, il reato di disastro doloso diventi inservibile.
L’Osservatorio Legalità di Legambiente si è messo al lavoro su una ventina di processi a rischio. In Italia i reati ambientali non hanno mai goduto di fortuna legislativa. Sono contravvenzioni fuori dal codice penale, si prescrivono in cinque anni, si cancellano pagando due soldi. «Figli di un dio minore», scherza Gianfranco Amendola, procuratore di Civitavecchia e storico pretore d’assalto, con un’esperienza politica nei Verdi. «Sono quindici anni che si parla di un salto di qualità introducendo reati specifici, ho partecipato a tre commissioni ministeriali e non se n’è mai fatto nulla, ora speriamo che sia la volta buona».
Nell’attesa, le Procure si sono arrangiate forzando altre fattispecie. L’attuale procuratore di Taranto, Franco Sebastio, negli Anni ’80 aprì i primi fascicoli sull’Ilva per getto di cose pericolose. Poi si è esteso al campo ambientale il «disastro innominato» previsto dal codice del 1930. Resta la via di contestare gli omicidi procurati con avvelenamenti ed esposizione ad agenti tossici: diretta, ma incerta dal punto di vista probatorio.
processo eternit casale monferrato 8
L’effetto è un’odissea a cui raramente i processi ambientali sfuggono. Alla complessità dell’accertamento dei fatti si aggiungono le guerre sulle perizie e le dispute sulla qualificazione del reato.
processo eternit casale monferrato 7
Così per la maxidiscarica di Bussi che avvelenava l’acqua di 500 mila persone, scoperta dalla Guardia Forestale nel 2007, il processo è partito nel 2009, si è fermato nel 2012 ed è ricominciato nel 2013 davanti a un diverso giudice per un contrasto interpretativo tra gup e tribunale. Inoltre, dato che i danni ambientali sono generalmente diffusi su molte vittime e si manifestano a distanza di tempo, la prescrizione incombe inesorabile.
Reati depotenziati, meccanismi processuali dilatori, incertezza probatoria, interpretazioni ballerine dei giudici creano un inefficace mix dissuasivo. Come spiega Laura Di Filippo, già titolare del primo corso universitario di criminologia ambientale, «questi reati fanno parte della criminalità economica: avvengono su base razionale, secondo un’analisi costi-benefici». E in Italia le condanne definitive sono poche, ancor meno quelle che portano in prigione. «Inquinatori in carcere ne ho visto solo uno - dice Rosario Ferrara, docente dell’università di Torino - ed era un poveretto che sversava liquami nel Tanaro. Se lo fa una multinazionale, non succede niente».
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