COME MAI ALLA DUCETTA È PARTITO L’EMBOLO CONTRO PRODI? PERCHÉ IL PROF HA MESSO IL DITONE NELLA…
Adelaide Pierucci per “il Messaggero”
Gli sparano alla schiena, rischia una condanna più pesante di chi ha fatto fuoco premendo il grilletto quattro volte. Non deve aver calcolato bene la reazione della giustizia un trentenne di Torpignattara uscito per un soffio, nel settembre di due ani fa, da un tentativo di esecuzione (così inquadrata dalla procura) in piena notte e in mezzo alla strada. Da subito, infatti, D. P. , 33 anni, incensurato, ha fatto una scelta condivisa con amici e parenti: non riferire nulla sullo sparatore.
Ma solo negare, dichiarare con fermezza di non aver visto o saputo niente. E se necessario disconoscere eventuali intercettazioni. Partendo da un presupposto ricavato da una captazione ambientale: «Mai passare per infami». Il risultato, quasi paradossale.
Mentre il pregiudicato che ha sparato, A.C., 28 anni, è stato condannato a tre anni e tre mesi per lesioni gravi, grazie alla scelta del rito abbreviato e alla derubricazione del reato da parte del giudice rispetto al tentato omicidio, P. che si è ritrovato uno dei quattro proiettili conficcati alla schiena rischia, sulla carta, una pena più grave. Il reato a lui contestato, ossia le false dichiarazioni all'autorità giudiziaria, sono punibili fino a 4 anni. Il trentenne però non sarà eventualmente solo al processo.
LE INDAGINI
Il pm Carlo Villani, titolare del fascicolo dell'aggressione e quello sulle omertà, ha chiuso le indagini sia a suo carico, che del fratello e della cognata, tutti accusati dello stesso reato, appunto, aver raccontato il falso sotto interrogatorio. L'ex fidanzata di P. (a sua insaputa movente degli spari) invece rischia di rispondere del reato di falsa testimonianza: lei le bugie le ha riferite in aula, davanti al giudice con la solita parola d'ordine: «Non ricordo», aggiungendo nel suo caso che «non era vero che parlavo di chi ha sparato chiamandolo Carlotta invece che Alessandro C.».
Fratello e cognata di Danilo P. sono arrivati a negare anche l'evidenza: hanno disconosciuto la loro voce intercettata. «Non è nostra». Il 3 settembre del 2018 Danilo P. aveva rischiato di morire come Luca Sacchi o di restare su una sedia a rotelle come il campione di nuoto Manuel Bortuzzo, ma appunto non aveva mai voluto rivelare una parola sui suoi potenziali assassini. La giustizia però ha proseguito il suo corso e per A. C., il ventottenne del Prenestino che aveva aperto il fuoco su uno scooter guidato da un complice mai identificato, il tribunale lo scorso ottobre aveva disposto una condanna a tre anni e due mesi di carcere, così ridotti anche per la scelta del rito abbreviato condizionato all'ascolto della parte lesa che, però, anche in quella occasione ha scelto di tacere.
«Non volevo uccidere» si era giustificato da parte sua C. assistito dall'avvocato Sandro D'Aloisi, scampando a una richiesta di condanna a 9 anni. In una intercettazione registrata in ospedale si sente un uomo dire a P.: «Comunque, dietro la schiena. Ti voleva ammazzà! Mica è un avvertimento. Dietro le gambe è un avvertimento».
Mentre la vittima minimizzando risponde: «Sì però se me vieni sopra e sto così e sto per terra...», come per dire che chi sparava volendo avrebbe potuto uccidere davvero ma non lo aveva fatto. Un particolare questo che aveva convinto la Corte alla derubricazione del reato. Ricostruzione ora appellata dalla procura. La configurazione non poteva reggersi «solo sul convincimento della persona offesa, ma sulla pericolosità del dolo omicidiario, sull'arma usata ossia una calibro 7,65, dal numero di colpi esplosi, dal distretto corporeo attinto e dalla gravità delle lesioni inferte».
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