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Estratto dell’articolo di Jonathan Bazzi per www.editorialedomani.it
Mi dichiaro colpevole: non ho mai avuto interesse per Britney Spears prima che perdesse il controllo. Era il 2007: la principessa del pop entra in un salone di bellezza, afferra un rasoio elettrico e, con un ghigno sinistro, si rasa a zero. E poi, qualche giorno dopo, armata di un ombrello verde, si scaglia contro l’auto di un paparazzo. Il suo volto è trasfigurato in un ringhio allucinato e le immagini fanno il giro del mondo.
Il coro globale insorge: Britney Spears è uscita di testa. Esaurita, drogata, alcolizzata, Britney divorzia da Kevin Federline, pericolosa per i figli: le viene tolta la custodia. Sembra ripetersi un copione visto altre volte: Kurt, Amy, Michael, Whitney, il talento che uccide. E in più: il destino maledetto delle baby star, la morsa letale del sistema sugli artisti quando sono donne. Il resto della storia è noto: Britney è stata messa sotto la tutela legale del padre per tredici anni.
The woman in me britney spears
Anni di prigionia, li definisce la cantante, di controllo totale, sfruttamento, ricoveri coatti e abusi (mentre il padre, che a detta di Britney, ha gravi problemi con l’alcol, di recente ha dichiarato: “Senza la conservatorship mia figlia sarebbe morta”). La cantante è tornata libera solo nel 2021, grazie all’impegno dei fan e del movimento social #FreeBritney, che ha spinto l’attenzione mediatica a smuovere le acque del controverso provvedimento legale.
Tutto questo e molto altro oggi viene raccontato dalla diretta interessata nel memoir The woman in me, Longanesi, un libro da cui si esce straniti, perché la voce di Britney è disturbante, infantile, a più riprese contraddittoria (in questo senso il tasso di autenticità pare altissimo e minimo l’intervento editoriale).
britney spears balla con i coltelli 4
Britney racconta ciò che ha subito prima, dopo e durante l’interdizione, ma accanto alla gravità delle vessazioni – un padre tirannico che la riduce in schiavitù, una madre che alla figlia paziente psichiatrica ripete solo quanto è brutta, un fidanzato (Justin Timberlake) che la costringe ad abortire nel bagno di casa e, mentre lei si contorce dal dolore, riesce solo a suonarle la chitarra –, a colpire è soprattutto l’effetto di congelamento nel passato, la sensazione alienante di ascoltare il racconto di una quarantenne bloccata nella preadolescenza.
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La storia di Britney sembra uscita dalla penna di Joyce Carol Oates: le vicende riportate nella prima parte del memoir ricordano Sorella, mio unico amore, il capolavoro della scrittrice incentrato sull’omicidio di Jon Benét Ramsey, la reginetta di bellezza di sei anni trovata uccisa nella cantina di casa. È la storia, quella e questa, di una famiglia in cui il disagio mentale si allea con l’ambizione, in un ciclo degenerativo di ferite tramandate e contagio psicopatologico.
Britney voleva essere vista, è stata disposta a tutto pur di essere vista, e la sua vicenda, impregnata di american dream e riscatto narcisistico, non può che rievocare un’altra figura tragica della società dello spettacolo, ovvero Marilyn. […] Britney incarna il sogno contemporaneo della popolarità precoce, vasta, e incondizionata, nonché le sue derive catastrofiche.
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Britney Spears è stata rovinata dagli altri, da sé stessa o da entrambi? Era una persona adatta al mondo dello spettacolo o avrebbe dovuto fare altro nella vita? Sicuramente le persone attorno a lei hanno agito con insensibilità, persino sadismo, e attaccamento al denaro, ma è importante non ridurre tutto solo alla contrapposizione buoni/cattivi tanto cara agli algoritmi, perché il rischio è di perdersi elementi ulteriori e profondi, che hanno a che fare proprio con la protagonista di questa storia, una figura commovente non solo per la famiglia disfunzionale in cui è cresciuta.
La forza ambigua, e a tratti straziante, del mito di Britney Spears, che poi è anche quella di Marilyn, ha a che fare con un bisogno d’amore furioso e primitivo che trova nella società una serie di alleanze oscure. Un bisogno così grande da oltrepassare il personaggio in cui arriva a essere rinchiuso, e farsi iconoclasta.
Marilyn si è impadronita del cartonato dell’oca bionda in cui l’avevano infilata, Britney Spears a un certo punto ha cercato di distruggere sé stessa. La sua storia è interessante non tanto, o non solo, in quanto schiava dello show business, ma perché parla della nostra tendenza a cercare surrogati clamorosi per l’antico desiderio frustrato, del male che siamo disposti a farci, e lasciarci fare, pur di raggiungere il castello incantato dell’approvazione.
Parla del ruolo del tempo, di come si fermi, a volte irrimediabilmente, per effetto di questo desiderio onnipotente, rendendoci bambini paralizzati nell’attesa infinita del complimento di mamma e papà (belle su questo le pagine in cui Britney confronta la sua esperienza con quella, antitetica, di Madonna, che per certi versi ha ucciso il padre, sostituendosi ad esso).
Nel periodo di esibizioni coatte a Las Vegas Britney Spear viene costretta a cantare solo le canzoni più vecchie del suo repertorio: è il sortilegio per effetto del quale il padre e il suo entourage le impediscono di crescere. Lei si ribella non muovendo i capelli (parrucche), rifiutandosi di mettere in moto ciò che tutti amano.
[…] Nella sua storia Britney rivela più di quello che sembra, è il non detto che scuote e lascia attoniti: non un’epica di liberazione, ma la trasformazione impossibile di un bisogno infantile, oggi più che mai motore della vita di tutti noi che ci affacciamo a spiare, morbosi e indignati, tra i resoconti di una lolita impazzita.
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