LA STORIA INFINITA DI IMI-SIR – IL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA CONDANNA LO STATO A PAGARE 173 MILIONI A INTESA-SANPAOLO COME RISARCIMENTO DELLA FAMOSA SENTENZA COMPRATA DAI ROVELLI – LO STATO FARÀ RICORSO IN APPELLO, MA INTANTO LA DECISIONE È IMMEDIATAMENTE ESECUTIVA

Gianluca Paolucci per “la Stampa

 

NINO ROVELLININO ROVELLI

Lo Stato italiano dovrà pagare 173 milioni di euro a Intesa Sanpaolo a titolo di risarcimento per la vicenda Imi-Sir. Si chiude così, con un esito beffardo, l’ultimo capitolo di una vicenda che ha attraversato 25 anni di storia italiana, avvelenando la vita pubblica e lasciando una ferita ancora aperta nella magistratura italiana.
Nel 1990, grazie ad una sentenza del giudice Vittorio Metta, l’allora Imi era stato condannato a risarcire con poco meno di mille miliardi di lire l’industriale Felice Rovelli per una vicenda relativa al suo gruppo chimico, la Sir appunto, risalente al 1979.

 

La Cassazione ha stabilito nel 2006 che la sentenza era stata «comprata», condannando in via definitiva Metta - che della sentenza incriminata era stato relatore ed estensore -, gli avvocati Cesare Previti, Attilio Pacifico, Giovanni Acampora e gli eredi di Nino Rovelli per corruzione in atti giudiziari. Da lì sono partite una serie di richieste di risarcimento avanzate da Intesa Sanpaolo in quanto «erede» del vecchio Imi. 

Cesare e Silvana Previti Cesare e Silvana Previti


L’ultimo pezzo è la sentenza depositata giovedì scorso con la quale la seconda sezione del tribunale civile di Roma ha condannato Metta e Acampora, con lo Stato responsabile in solido, a risarcire il gruppo bancario. La sentenza di primo grado è immediatamente esecutiva, ovvero Intesa può chiedere da subito il risarcimento. La responsabilità in solido fa sì che, essendo tanto Metta quanto Acampora “incapienti” (ovvero non dispongono delle risorse necessarie), la banca si rivarrà sull’unico soggetto che le risorse per pagare, ovvero lo Stato. 


Il calcolo di quanto dovuto parte dal riconoscimento di un danno di 570 milioni di euro, ridotto grazie alle transazioni compiute nel corso degli ultimi anni con gli eredi di Nino Rovelli, con Cesare Previti e con Attilio Pacifico. Dopo una «caccia al tesoro» durata due anni infatti la procura di Monza aveva recuperato il tesoro dei Rovelli, nascosto in una miriade di conti esteri in vari paradisi fiscali. Gli eredi dell’imprenditore hanno così transato con Intesa pagando oltre 160 milioni di euro e uscendo dal processo civile.

cesare previti foto mezzelani gmt cesare previti foto mezzelani gmt

 

Stessa scelta fatta da Previti e Pacifici, che hanno pagato 114 milioni di euro. Restavano appunto Metta e Acampora, citatati in giudizio da Intesa - rappresentata dagli avvocati Angelo Benessia, Bruno Cavallone e Simone Orengo - con la Presidenza del consiglio dei ministri. A questo punto, dei 570 milioni di euro individuati come danno totale restavano appunto i 173 milioni di euro della condanna che lo Stato dovrà pagare. 


La sentenza di 175 pagine ripercorre l’intera vicenda dal suo prologo, la ristrutturazione dalla Sir dei Rovelli guidata da Imi nel 1979, fino al contesto nel quale maturò la sentenza del 1990 oggetto della corruzione e tutte le successive tappe giudiziarie della vicenda. Secondo il collegio giudicante la vicenda, nonostante le dimensioni dell’istituto, «costituisce chiara manifestazione di pregiudizio all’immagine di sano e prudente gestore dei risparmi e fondi altrui quale viceversa un operatore bancario è tenuto istituzionalmente ad apparire». Cita inoltre il peso in bilancio della vicenda, oltre alla «alterazione dell’ordinaria gestione» data dalla quantità, qualità e durata delle iniziative giudiziali ed extragiudiziali intraprese per aver riconosciuto il danno subito e recuperare le somme pagate. 

GIOVANNI ACAMPORAGIOVANNI ACAMPORAnino rovellinino rovelli


La Presidenza del consiglio a questo punto può rivalersi nei confronti di Acampora, ma non nei confronti di Metta in quanto , ai sensi della legge sulla responsabilità civile dei magistrati spetta allo Stato la responsabilità «in solido». Il prossimo passaggio, scontato, sarà il ricorso in appello. Ma intanto lo Stato, cioè il cittadino-contribuente, dovrà pagare.