RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
Andrea Nicastro per corriere.it
Sull’edizione russa di Wikipedia, il nome Denis Projipenko è messo in cima alla lista dei comandanti del battaglione Azov. Il più alto in grado. Il nemico numero uno di Mosca, l’uomo che personifica sul campo quell’Ucraina «nazista» da cui Putin vuole liberarla. Sui siti di Kiev, invece, nulla. Projipenko non c’è. Scomparso, la memoria digitale cancellata. Pulizia totale di tutto quanto lo riguardava. Fosse per Internet, l’ufficiale in capo della resistenza militare a Mariupol sarebbe un uomo senza passato, senza gloria, ma anche senza i sospetti di simpatie neonaziste che oggi nuocerebbero alla causa ucraina. Uno e novanta, biondo, naso sottile e occhi azzurri, il maggiore Denis Projipenko è uno dei fondatori del Battaglione Azov.
Addestrato come un incursore, bello come un attore, da anni è in prima linea contro i filorussi del Donbass e oggi, adesso, in questi minuti, è in trappola a Mariupol. Accerchiato senza possibilità di rinforzi. Bombardato dal cielo e dal mare. Braccato dai droni e dalle orecchie elettroniche. Basta una sua comunicazione, un avvistamento, una soffiata per potergli indirizzare contro un missile. Mosca sa come fare. Ci riuscì durante l’assedio di Grozny, in Cecenia, negli anni ’90 contro il presidente indipendentista Dudaev. E allora le tecnologie erano molto più arretrate.
A Mariupol 14-15mila militari russi stanno riversando una marea di esplosivi sulla città per eliminare lui e i suoi uomini. Decine di missili sono pronti a disintegrarlo, migliaia di soldati a reclamare la taglia che il presidente ceceno Ramzan Kadyrov, intimo del leader del Cremlino Putin, ha messo sulla sua testa. Vivo o morto. Mezzo milione di dollari. Ciò che sta succedendo ai soldati che difendono Mariupol e al loro comandante Projipenko, ha lo spessore tragico delle grandi battaglie che cambiano il corso della storia e ispirano forti sentimenti. Anche se, nel frattempo, i protagonisti sono tutti morti. I 960 zeloti di Masada. I 300 spartani alle Termopili. Gli affamati di Stalingrado.
Tutti sacrifici, vittoriosi o perdenti non è così importante per la storia, capaci però di segnare la consacrazione di un’identità non più negoziabile. Per il maggiore Projipenko, il riferimento più diretto è un altro, inciso persino in un bassorilievo dell’abbazia di Saint-Germain-des-Prés a Parigi. E’ la battaglia combattuta a metà del 1600 dai liberi cosacchi della steppa di Zaparozhzhie contro l’esercito lituano-polacco di re Giovanni II Casimiro.
Ortodossi contro cattolici. Un impero dell’ovest contro le steppe dell’est. La battaglia di Berestenchko è, probabilmente, il più grande scontro terrestre di un secolo per nulla pacifico. I cosacchi di Crimea e del bacino del fiume Dnipro non volevano sottomettersi. Persero, ma 400 anni dopo, Denis Projipenko continua ad ispirarsi alla loro lotta per giustificare la sua.
È, probabilmente pronto a diventare il nuovo eroe nazionale ucraino. E le sue simpatie politiche, verranno strumentalizzate o meno a seconda di chi si impossesserà della sanguinosa leggenda. Ex capo degli ultrà della Dinamo Kiev, con la guerra del Donbass, Projipenko accorse volontario nel 2014 alla difesa del Paese. Da allora è diventato un soldato professionista, si è addestrato, ha imparato a combattere battaglie vere, non contro i lacrimogeni degli stadi. I russi dicono che abbia avuto istruttori stranieri, dai Delta Force alla Legione Straniera.
Il nucleo dei primi volontari del 2014 si struttura con il passare dei mesi. Riceve armi. Entra a far parte della Guardia Nazionale nell’autunno del 2014 ed è a quel punto che si libera di alcuni elementi di estrema destra. Da allora, in teoria, dovrebbe seguire le regole dell’esercito nazionale per cui l’apologia del nazismo è vietata. Il clima dentro il battaglione diventato brigata resta quello della sua iconografia, il simbolo così simile alla runa nazista, le t-shirt nere, le teste rasate, il saluto con il pugno al petto. Tutto molto militarista, machista e super nazionalista e forse oltre.
UN MEMBRO DEL BATTAGLIONE AZOV
Tre giorni fa, il Maggiore ha fatto arrivare fuori dalla trappola di Mariupol un suo video selfie, sul genere di quelli registrati dal presidente Zelensky. Ma nel caso di Projipenko, non era solo la maglietta verde a dare l’idea della guerra. Il Maggiore dell’Azov ha elmetto, armi e caricatori. Parla in inglese, dritto in camera. Alle sue spalle un muro di cemento scrostato. Il coro delle esplosioni accompagnano le sue parole. La morte è a poche centinaia di metri. Lui continua a parlare imperterrito. Era al dodicesimo giorno di accerchiamento. Siamo al 21esimo. Azov, marines e Guardia Nazionale ucraina difendono Mariupol. Tremila combattenti, forse meno, che hanno contro almeno 14mila russi. “Stiamo facendo miracoli” dice il comandante in video.
In genere per sconfiggere una guarnigione che difende, la dottrina militare chiede un rapporto tra attaccanti e assaliti di 3 a 1. Qui siamo quasi 5 a 1 e ancora Projipenko e i suoi non si sono arresi. Non potranno farlo perché temono che non ci sarà l’onore delle armi, ma lo sterminio. Ci vorrebbe un garante. Ma di mediatori non ce ne sono. Fuori dell’assedio, fuori da Mariupol, altri esponenti dell’Azov chiedono l’autorizzazione ad impiegare unità militari ucraine per rompere il cerchio russo. Chiedono rinforzi per salvare il Maggiore e i suoi. Senza risposta. Il XXI secolo sta vivendo una tragedia da mondo antico, con tremila uomini che combattono per la patria. Da un giorno all’altro Mariupol cadrà. Fare di loro un mito non conviene a Putin. L’essere ucraino diventerà ancora di più qualcosa di diverso, inconciliabile, alternativo all’essere russo. Ma tutta questa guerra, così come si sta sviluppando, non conveniva al Cremlino. La razionalità svanisce sotto le bombe. L’umanità anche.
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