DAGOREPORT - L’ASSOLUZIONE NEL PROCESSO “OPEN ARMS” HA TOLTO A SALVINI LA POSSIBILITA’ DI FARE IL…
Salvo Fallica per "www.corriere.it"
L’azienda dolciaria Condorelli, nota per la produzione dei torroncini e dolci di Sicilia, era da tempo nel mirino delle cosche del pizzo legate al clan Santapaola-Ercolano. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, negli anni la Condorelli aveva ricevuto minacce e richieste di denaro, cui però l’azienda aveva resistito, fino alla decisione di denunciare.
Quella denuncia ha fornito una ulteriore spinta all’inchiesta «Sotto scacco», avviata nell’ottobre 2017 grazie alle dichiarazioni di quattro collaboratori di giustizia — che oggi ha portato a 40 arresti, dieci dei quali ai domiciliari, tra Catania, Siracusa, Cosenza e Bologna. Gli investigatori del Comando Provinciale Carabinieri di Catania, coordinati dalla Dda, hanno anche chiarito che tra le attività criminali condotte dai gruppi mafiosi riconducibili alla famiglia Santapaola-Ercolano, operanti in provincia di Catania, c’era anche il progetto di far arrivare ingenti carichi di cocaina dall’Ecuador occultata in container contenenti banane.
Il tentativo di estorsione
Gli investigatori di Paternò hanno ricostruito il tentativo di estorsione aggravata all’industria dolciaria — una delle più famose d’Italia, con sede a Belpasso, alle pendici dell’Etna — guidata dal cavalier Giuseppe Condorelli, erede del fondatore, Francesco. Nel 2019 i mafiosi avevano recapitato un pacco con un biglietto con la scritta «mettiti a posto ho (sic) ti facciamo saltare in aria cercati un amico» e una bottiglia incendiaria.
Condorelli aveva denunciato il tentativo di estorsione ai carabinieri, che stavano già indagando sul clan e che, a quel punto, avevano intercettato una telefonata tra due affiliati Barbaro Stimoli e Daniele Licciardello. Nella conversazione — ora agli atti dell’inchiesta — i due parlavano dei rischi che si posso corre al tentativo di estorcere denaro ad un personaggio di rilievo nazionale come il produttore dei torroncini: così la mafia dell’hinterland pedemontano dell’Etna aveva cambiato strategia e abbandonato l’idea di continuare a tentare l’estorsione.
Il boss che comandava durante i permessi premio
L’operazione antimafia ha permesso di ricostruire gli organigrammi di gruppi mafiosi della famiglia Santapaola-Ercolano a Paternò e Belpasso (importanti centri della provincia etnea). Secondo l’accusa, gestivano un fiorente traffico di stupefacenti, in particolare marjuana e cocaina, ma anche estorsioni, riciclaggio, ricettazione, creando una situazione di grave condizionamento del tessuto economico locale.
Tra gli elementi di vertice, ricostruisce la Dda, c’era il boss Santo Alleruzzo che, nonostante una condanna all’ergastolo per duplice omicidio, mafia e traffico di droga che sta scontando detenuto a Rossano (Cosenza), approfittava dei permessi premio per ritornare nel paese d’origine, Paternò, dove durante dei summit mafiosi continuava ad impartire ordini e direttive per la gestione degli affari del clan.
L’estorsione ad altri imprenditori
L’operazione del Comando dei carabinieri di Catania — guidato dal colonnello Coppola — ha fatto emergere «una situazione di grave inquinamento mafioso del tessuto economico locale, come dimostra l’individuazione di diversi imprenditori che consapevolmente favorivano le illecite attività del clan». Secondo le accuse il titolare di una ditta di commercio di prodotti ortofrutticoli otteneva la protezione della mafia per imporsi sulla concorrenza e gestire eventuali «problemi» con i creditori versando ai vertici della cosca una percentuale degli utili di impresa e consentendo loro di concludere affari.
Ed ancora, un proprietario di importanti gioiellerie — secondo gli inquirenti — «consentiva al capo del clan di operare compravendite in contanti di diamanti, orologi e gioielli, senza rendicontazione fiscale, permettendogli di riciclare denaro “sporco”».
Le indennità di disoccupazione
Dalle indagini è emerso anche un ulteriore canale di finanziamento delle casse del clan: l’indebita percezione dell’indennità di disoccupazione agricola. Secondo l’accusa, attraverso una rete di ditte compiacenti, consulenti del lavoro disponibili e soggetti che si prestavano a fungere da falsi braccianti, l’organizzazione predisponeva tutta la documentazione necessaria ed inoltrava all’Inps le domande per l’indennità.
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