“L’ITALIANO” DI GUANTANAMO - ABDUL BIN MOHAMMAD ABBAS OUERGHI, TUNISINO CRESCIUTO A MILANO, E’ STATO 13 ANNI NELLA PRIGIONE USA A CUBA SENZA UN’ACCUSA UFFICIALE - ORA E’ STATO ACCOLTO DALL’URUGUAY DI MUJICA

Massimo Calandri per “il Venerdì - la Repubblica

 

ABDUL BIN MOHAMMAD ABBAS OUERGHIABDUL BIN MOHAMMAD ABBAS OUERGHI

“A Guantanamo noi italiani eravamo in sette”. Noi italiani, dice Abdul. «Tunisini come me, che però sono cresciuto tra Milano e Treviso. Gli altri erano di Genova, Napoli, Padova. Due volte sono venuti da Roma i carabinieri a interrogarmi: volevano sapere delle “cellule” di Al Qaeda in Italia. Io ripetevo che non c’entravo nulla, ma era tutto inutile. Gli americani mi hanno rinchiuso lì dentro nel febbraio del 2002, qualche mese dopo le Torri Gemelle. Ci sono rimasto per tredici anni. Senza neppure un’accusa ufficiale. E adesso, chi me la ridà indietro la mia vita?».

 

Abdul Bin Mohammad Abbas Ouerghi nel dicembre scorso ha lasciato il carcere Usa insieme ad altri quattro prigionieri di origine siriana. È stato accolto dal governo dell’Uruguay, che attraverso il sindacato dei lavoratori (Pit-Cnt) e un’organizzazione per i diritti umani ha messo a disposizione del gruppo di rifugiati un piccolo appartamento a Montevideo e cinquecento euro mensili a testa per sopravvivere.

 

ABDUL BIN MOHAMMAD ABBAS OUERGHI ABDUL BIN MOHAMMAD ABBAS OUERGHI

Abdul è formalmente libero: di fatto non ha scontato alcuna condanna perché non ha mai subito processi. Il Dipartimento della Difesa americano lo ha messo per iscritto: «Nei suoi confronti c’erano solo sospetti». Sospettato. Di essere un membro di Al Qaeda, di avere avuto informazioni prima dell’attacco dell’11 settembre, di insegnare a usare esplosivi nei campi di addestramenti afgani e pachistani, di avere reclutato estremisti in Italia. Un filo diretto lo avrebbe addirittura legato a Osama Bin Laden.

ABDUL BIN MOHAMMAD ABBAS OUERGHI ABDUL BIN MOHAMMAD ABBAS OUERGHI

 

«Ma io volevo solo fare il cuoco e vivere in pace» ripete questo cinquantenne, «piccolo di statura, lo sguardo mite» raccontando una storia drammatica e per molti versi surreale. Cominciata in Veneto agli inizi degli anni Ottanta, quando ancora era un adolescente. «In Tunisia vendevo vestiti usati con mio padre. Ho raggiunto in Italia mio fratello, faceva il muratore». Abdul lavora, manda i risparmi ai genitori. Poi però le cose si mettono male. Cattive amicizie, la droga. Piccolo spaccio. Viene arrestato a Roma nel 1992, finisce in galera. Nel 1997 è a Milano e frequenta la moschea di viale Jenner.

 

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«Grazie a quell’ambiente ho rimesso la testa a posto, ho abbracciato la religione. Ho scelto di andare in Afghanistan, mi sono sposato. Una storia semplice, pulita». Per i servizi segreti Usa, invece, l’Italiano da Milano raggiunge Islamabad, quindi un campo di addestramento afgano di Al Qaeda a Jalalabad, dove perde un dito della mano a causa di una granata.

 

Sempre secondo l’informativa – che grazie a Wikileaks è facilmente scaricabile su internet -, entra in contatto con dei terroristi libici del Gruppo Combattente Islamico. Le montagne di Tora Bora, la guerriglia al confine pachistano armato di un mitragliatore AK-47, la cattura con un gruppo di talebani, la fuga durante un bombardamento statunitense. Lo fermano di nuovo in Afghanistan nel dicembre del 2001 e due mesi dopo è definitivamente nelle mani dei militari Usa. Guantanamo.

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«Dicevano di aver le prove, che il mio nome era scritto nelle agende di persone importanti, che io ero molto pericoloso. Ma non mi hanno mai mostrato nulla». Dei 13 anni di prigionia, delle torture, gli interrogatori, non vuole parlare. «Ero innocente. Formalmente non mi hanno accusato di nulla. Mai. Se c’era anche un piccolo indizio contro di me, perché non l’hanno tirato fuori?».

 

Giura che gli americani già nove anni fa gli avevano detto che avrebbe dovuto essere liberato. «Però ripetevano che nessun Paese voleva accogliermi. Non la Tunisia, dove con Ben Alì (il presidente cacciato all’alba della primavera araba) mi avrebbero messo dietro le sbarre. Neppure l’Italia: “Non ti vogliono, hanno paura”, raccontavano. E così sono rimasto a Guantanamo».

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Quattro mesi fa si è fatto avanti José “Pepe” Mujica, allora presidente dell’Uruguay: «Abdul è un essere umano vittima di un sequestro atroce. Ha bisogno di aiuto e per una sola ragione, ineludibile: l’umanità» ha detto Mujica. Lo ha accolto lui. «Che persona straordinaria. Ci ha ricevuto a casa sua. Ha detto che qui saremmo stati al sicuro. Che potevamo ricominciare a vivere». Lui e i quattro compagni abitano un vecchio appartamento in Maldonado, angolo Magallanes, quartiere Palermo.

 

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Una piccola stanza a testa, una saletta col pavimento in legno dove pregare, niente riscaldamento ma un computer sempre acceso. Fanno la spesa da Mallorca, il panificio di fronte. Venti metri più in là c’è un asilo, il Borocoto. L’arrivo del gruppo doveva restare segreto, ma poi – si sa – la curiosità dei vicini, le chiacchiere. «Ci hanno accolto molto bene. Qui è tutto tranquillo, rilassato. Oggi potrei andare dove voglio, però ho scelto di restare. Per sempre. Mi piacerebbe che mia madre mi raggiungesse, in questi anni ha sofferto tanto» Ahmed, Ali, Mohammed, Abu. E Abdul l’Italiano. Il gruppo frequenta un corso di spagnolo, comincia ad integrarsi, «anche se la vita è cara e con 500 pesos al giorno non hai molte alternative: pane e scatolette».

 

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Lunghe passeggiate per scoprire la città e poi quasi sempre chiusi in casa a dormire, un po’ di calcio locale in tv: tifano Nacional. Il più giovane si è fidanzato con una ragazza del posto ma ha un problema: non sa come dirle che non può avere nessun tipo di rapporto sessuale prima del matrimonio, vorrebbe che qualcuno lo aiutasse a spiegarle. Un altro è quasi sempre in ospedale per curare le lesioni alla vista, conseguenza delle scariche elettriche. Abdul è l’unico a lavorare. Fa il cuoco, e non gli sembra neanche vero. «Marisa, una signora del quartiere proprietaria di un ristorante, mi ha chiesto di preparare qualcosa di tipico della mia terra. Tunisia o Italia? Entrambe.

 

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Dicono sia un po’ troppo piccante, però dovreste vedere come mangiano di gusto. Mi piacerebbe tanto aprire un locale tutto mio. Un giorno, chissà». Ha nostalgia di Milano, gli piacerebbe tornare. Alcuni fratelli – sono 17, in famiglia – vivono ancora lì. «Sì, tornerei in Italia. Ma solo pochi giorni, da turista. Magari a Como. È il posto più bello dove sono stato. Il lago, il silenzio. La pace». Inutile chiedergli se è davvero quello che i servizi segreti statunitensi sospettavano. L’uomo di Al Qaeda, il guerrigliero, il reclutatore. «Una sola prova. Vi chiedo una sola prova contro di me, e allora sarò disposto a parlare. Altrimenti è tutto inutile. Non riuscite a capire l’ingiustizia che ho patito, e continuo a subire».

 

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Mentre Abdul era rinchiuso e torturato a Guantanamo, la Tunisia era stata la prima ad insorgere. «Adesso è tornato tutto come prima, non è cambiato nulla. Provo solo dolore». La Siria, lo Stato Islamico. «Come faccio a rispondere? Sono sempre stato contro il terrorismo, e ogni forma di violenza. Ma anche quella americana. Basta, non ce la faccio più a parlare di queste cose». Nelle prime settimane in Uruguay, un uomo del sindacato veniva a prendere lui e gli altri, li accompagnava in auto a fare spese in un supermercato sulla rambla di fronte al mare.

 

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Solo che passavano davanti all’ambasciata Usa, in via Muller, a cinque isolati dalla loro casa, e un giorno sono stati fermati tutti da alcuni uomini armati della sede diplomatica: hanno detto che erano «pericolosi terroristi» e che non dovevano più farsi vedere da quelle parti. Invece per alcuni giorni hanno protestato davanti all’ambasciata. «Gli Stati Uniti ci hanno rubato 13 anni e adesso fanno come se non fosse mai accaduto nulla». Da Washington è subito arrivata la risposta ufficiale: «La storia è chiusa. Non avrete un centesimo». Abdul non si arrende, ha imparato a resistere. Forse qualche avvocato italiano potrà sostenere la sua causa. «Non può finire così. Rivoglio la mia vita».