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Alberto Piccinini per “il Venerdì - la Repubblica”
In una stanza d’albergo, Patti Smith posa sul tavolo una vecchia edizione dell’autobiografia di Joan Baez, Daybreak. «Guarda, ce l’ho dal 1967!», si vanta con la competenza di chi ha lavorato in libreria. Aggiunge che all’epoca vestiva come Audrey Hepburn, bibliotecaria in Cenerentola a Parigi. La copertina è scolorita, l’apparizione curiosa tra le mani di una poetessa punk: «Il XVI secolo ha avuto Giovanna D’Arco, noi Joan Baez».
Cita il discorso fatto la sera precedente durante una cerimonia di Amnesty International, e ricorda: «Quando andavo al liceo non c’erano modelli per quelle come me. Ero troppo giovane per la Beat Generation e il rock’n’roll era dominato da cantanti maschi. Andava benissimo, ma Joan Baez ci indicava una maniera politica di esprimersi con la musica».
Poco più di dieci anni dopo, nel novembre del 1974, Patti Smith registrerà il suo primo album Horses negli Electric Lady Studios di New York. Jimi Hendrix li aveva fatti costruire un mese prima di morire, lei si era imbucata alla festa di inaugurazione e sulle scale aveva incontrato il chitarrista in partenza per l’isola di Wight. Non aveva dimenticato le poche parole scambiate fra due timidi: «Mi disse che sognava di radunare musicisti di tutto il mondo, farli sedere in cerchio a suonare finché non avessero scoperto un linguaggio comune, il linguaggio della pace».
Tuttavia, nonostante Jimi Hendrix e Joan Baez, Horses non sarà un disco politico. E neppure pacifico. I protagonisti delle canzoni – Gloria, Johnny, Peter Reich… – sono soli, abitano le strade di una metropoli che ha smarrito ogni dimensione collettiva. Ragazzi selvaggi la cui vita – proprio come in una canzone di Lou Reed – sarà salvata dal rock’n’roll.
Solo quando Patti Smith prestò la sua voce a una generazione di ragazzi europei disillusi dalla politica avremmo chiamato tutto questo punk. Dice: «Io parlavo ai ragazzi e alle ragazze che si sentivano soli, ai miei amici artisti, ai poeti, ai giovani omosessuali abbandonati dalla famiglia, ai travestiti, alle pecore nere fuori della società. E intanto cercavo di scoprire qual era il mio posto nella vita».
Horses è una meditazione romantica sulla tomba di un’epoca intera, gli anni Sessanta. Vive in un tempo sospeso, evoca il passato tanto quanto lascia immaginare il futuro: «L’obiettivo politico della mia generazione era stato quello di far finire la guerra in Vietnam e progredire i diritti civili, ma queste cose al tempo di Horses erano passate. Il disco riguarda la nostra voce culturale. Jim Morrison, Jimi Hendrix e Janis Joplin erano morti, la tela si stava sfilacciando, la mia politica era la conservazione e l’evoluzione del rock’n’roll».
Horses viene dai fogli delle poesie sputati dalla macchina da scrivere, dimenticati sul pavimento del loft diviso con Robert Mapplethorpe, gridati al pubblico che la mandava a quel paese nei piccoli locali. Altri versi furono improvvisati da Patti Smith in sfida al produttore, l’ex Velvet Underground John Cale. Lenny Kaye, giornalista e collezionista di 45 giri «garage» grattava tre accordi sulla chitarra elettrica.
Il pianista diplomato Richard Sohl, capace di suonare Mendelsohn e Beethoven a memoria, soprannominato «Morte a Venezia» per i suoi riccioli vezzosi, donava al rituale un tocco elegiaco, nostalgico. Sono passati quarant’anni esatti da allora. Patti Smith torna a eseguire integralmente Horses in una trentina di concerti europei quest’estate e promette una performance che non avrà niente di teatrale: «Ho ancora lo stesso chitarrista, Lenny Kaye, e lo stesso batterista, Jay Dee Daugherty. Con loro voglio rivivere di nuovo l’energia di quel disco».
Non ha incertezze nel ripercorrere la sequenza delle canzoni: «Land è per William S. Burroughs, la voce di Johnny è molto Wild Boys» spiega. «Break It Up per Jim Morrison, visto come una specie di angelo prometeico. Elegie è per Jimi Hendrix, e per tutta la gente che non c’è più. La morte di Hendrix è anche alla fine di Horses: nelle lenzuola/ c’era un uomo/ che ballava intorno/ a una semplice canzone rock’n’roll». E ogni volta che accenna i suoi versi, sono i versi a impadronirsi della sua voce.
«Cantare a sessant’anni la filosofia di quando ne avevi venti può farti girar la testa» ammette. «Gesù è morto per i peccati di qualcuno/ non per i miei l’ho scritto a 20 anni quando avevo bisogno di staccarmi dalla religione e il problema non era Gesù, ma la Chiesa, tutte le chiese. Solo quando ho studiato Pasolini il Vangelo secondo Matteo, ho iniziato a vedere Gesù come un rivoluzionario».
Precisa subito: «Questo disco mi piace ancora tutto, non mi scuso di niente. Dico solo che rompere con la Chiesa non è tra i miei pensieri principali oggi. Ci sono altre canzoni che non amo fare. Perché la mia voce è cambiata, sono troppo complicate. O perché mi rendono triste».
LESTER BANGS PATTI SMITH E LOU REED
La vita non è stata clemente con lei. Ha perso suo marito Fred Smith e il suo pianista Richard Sohl più di vent’anni fa. «Sì, è dura per me cantare Frederick. Invece non ho problemi con Because the Night. L’ho scritta per Fred, ma con una tale gioia che è diventata quasi una canzone italiana. È di tutti. Ecco cos’è cambiato, da ragazza avrei fatto un pezzo sperimentale di venti minuti per far scappare la gente, adesso vado sul palco e chiedo: cosa volete sentire? Come possiamo rendere questa serata bella, divertente, speciale?».
Il tempo è capace di essere molto crudele. Ti mette ai margini, cancella i luoghi che ti hanno ispirato, ti condanna alla nostalgia. «Quando sono arrivata a New York sulla 42esima strada c’erano marinai e prostitute, i pornoshop. Ma c’era un’atmosfera creativa: musicisti, artisti, attori, commediografi. Affittavi un appartamento, lo ripulivi dagli scarafaggi e ci vivevi», ricorda ancora. Senti la passione della sua scrittura più recente. Dopo lo struggente Just Kids è già annunciata per il prossimo autunno la seconda parte del suo memoir, M Train.
patti smith papa francesco bergoglio
Alza la voce: «Oggi a New York è tutto costoso, tutti hanno una carta di credito, tutti vanno a fare shopping, tutti stanno al telefono. Io e Robert non avevamo la carta di credito, non andavamo a fare shopping, e di tecnologico avevamo solo un vecchio giradischi». Ripete che se queste cose la fanno arrabbiare non è per lei, ma per i giovani: «Io cerco di stare a galla tecnologicamente parlando, ma ora so come si sentivano William Blake e i poeti romantici ai tempi della rivoluzione industriale».
Il tempo, ancora, può riservare sorprese. Le notizie ci avvertono del successo in Spagna del movimento degli Indignados. Patti Smith ricorda di essere scesa in strada a Madrid con loro mentre gli striscioni strillavano il titolo di una sua canzone. E poi: «Una mattina mi sveglio e trovo un messaggio di Tom Hanks. In Grecia stanno suonando la canzone preferita di tuo padre! Ho acceso la tv, ho visto i festeggiamenti per Tsipras e mi sono commossa ascoltando People Have the Power».
La canzone nacque per merito di Fred «Sonic» Smith, suo marito, ex chitarrista degli MC5, uno dei gruppi di rock più politicizzati di tutti i tempi: «Un giorno ero a tavola, stavo pranzando. Fred arriva e mi ha fa “Trisha, people have the power. Scrivilo!” Ok. Ne abbiamo parlato per ore. È mio il tono biblico del testo: dove erano deserti/ io ho visto fontane. È bello ricordare adesso quella canzone perché è esattamente l’evoluzione di Horses. Horses era rivolto a un certo tipo di persone, People Have the Power è per tutti».
Le propongo, infine, di guardare una volta ancora la foto di copertina di Horses, scattata da Robert Mapplethorpe. «Di fronte alle vecchie foto capita di chiederti perché eri così. Ma di fronte a questa non mi viene da ridere» riflette sicura.
«È una foto onesta. Non mi ero mascherata, avevo addosso quello che mi mettevo di solito, niente trucco, niente stylist». I retroscena dello scatto, un giorno grigio nella casa del fidanzato gallerista di Mapplethorpe, la camicia comprata in un negozio dell’usato, Patti Smith li ha messi tra le memorie più care di Just Kids.
«Nella mia testa volevo assomigliare alle foto di Baudelaire e Rimbaud, e un po’ a un ragazzo delle scuole cattoliche» continua. «Ricordo il, primo tour di Horses: tutto il pubblico aveva la stessa camicia bianca e la cravatta nera. Ho pensato che eravamo connessi nel nome di Baudelaire e di Oscar Wilde, e per me queste cose fanno parte delle piccole gioie della vita».
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Che fine hanno fatto quei vestiti? «Nel 1987 a Chicago durante un trasloco ci hanno rubato un baule e ho perso tutto quello che avevo addosso nella foto. Anche la piccola spilla col cavallo che mi aveva regalato il mio fidanzato Allen Lanier. Sono cose materiali, ma a pensarci mi viene ancora da piangere. Qualcosa ho ancora, un paio di t-shirt che mettevo ai concerti, la chitarra acustica che mi ha regalato Sam Shepard, un pacchetto di lettere di Robert, la macchina da scrivere… oddio, non ho più molto».
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