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Simonetta Sciandivasci per “il Foglio”
Nel variegato spettro di sconsiderate e disdicevoli azioni che può compiere una vagina, mai e poi mai avremmo immaginato di trovare la discriminazione. E invece, sedetevi comodi e sentite questa: dice Healthline che essa non è gender-inclusive, ovvero non è rappresentativa di tutte le identità e di tutti i generi sessuali, pertanto sarebbe assai più opportuno nominarla diversamente, in modo più neutro e versatile, per esempio (restate sempre seduti) “buco anteriore” – in inglese “front hole”, che è più caruccio e, un giorno, forse, sarà persino sexy.
Healthline non è un blogghetto qualunque, bensì un provider californiano di informazione sulla salute (fondato un paio di anni fa da James Norman, professione medico endocrinologo), che ha annunciato, previa attenta riflessione di voler d’ora in avanti riferirsi alla vagina con un linguaggio inclusivo “che tenga conto del fatto che le persone transessuali non si identificano con le etichette che la comunità medica attribuisce ai loro genitali”.
La parola vagina, impiegatissima dalla pratica femminista soprattutto negli anni Settanta, quando si sosteneva che urlarla educava le donne all’affermazione di sé e della propria specificità, eserciti, al contrario, una violenza, una coercizione insopportabile sulle persone con disforia sessuale o non cisgender (quelle in cui identità e genere sessuale coincidono) o fluide o trans o fuori dal binarismo sessuale maschio/femmina.
Healthline riporta che l’alternativa proposta e nient’affatto inedita – buco anteriore – sta già riscuotendo il favore di una buona parte della comunità Lgbt, che vede così meglio rappresentata la moltitudine di gusti, nature e destrutturazioni che la popolano e animano.
Un primo passo, ma ancora troppo piccolo: l’auspicio è che presto, più presto possibile, sui manuali di igiene sessuale, sulle guide al sesso sicuro, nei workshop su come non traumatizzare il prossimo con i propri attributi sessuali arbitrariamente decisi a tavolino dai padri fondatori della biologia (un altro costrutto del quale prima ci liberiamo meglio è, dicunt), la parola vagina venga bandita e sostituita con buco anteriore.
Non è chiarissima la ragione per la quale a questa innovazione del linguaggio potrà corrispondere una più efficace prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, tuttavia dalla California ci assicurano che avverrà e che depennare la parola vagina contribuirà in modo determinante a far sì che la scienza si occupi meglio e di più dei problemi di salute delle persone transessuali.
C’è, poi, il dato culturale: vagina è una parola da veterofemministe, da bigotte, da streghe alla Germaine Greer, una che il fatto di avere una “vagina che sanguina una volta al mese” l’ha urlato spesso per ribadire che una transessuale non può essere una donna, e che sostenere il contrario avrebbe cancellato le donne e i loro bisogni.
Lei, adorata per decenni dalle file più rispettabili del pensiero femminista, si è così guadagnata l’espulsione a vita dai dotti seminari dei liberali progressisti di moltissime università inglesi e statunitensi. E cosa ne sarà della recente manualistica sul tema, tipo “Il libro della vagina. Meraviglie e misteri del sesso femminile” di Nina Brochmann ed Ellen Stokken Dahl (ed. Sonzogno), pubblicato di recente e accolto con grande entusiasmo anche da pensatori e pensatrici molto vicini alle comunità Lgbt, quando non addirittura loro sodali?
Faremo un’auto da fé, come cantava Franco Battiato, dei nostri innamoramenti? Accidenti, proprio ora che l’erudizione sugli splendori e sulle miserie del sesso femminile sembrava al suo massimo livello d’espansione, tocca riscriverla (basterà o bisognerà anche annullarla?).
Non si può mai stare tranquille, che barba, che noia, che noia, che barba (che poi anche la barba, diciamocelo, è assai poco gender inclusive).
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