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“È STATO UN OLOCAUSTO DI UN GIORNO” – VIAGGIO NEL KIBBUTZ BE’ERI, DOVE IL 7 OTTOBRE I TERRORISTI DI HAMAS HANNO UCCISO 86 PERSONE. ALCUNE SONO STATE BRUCIATE VIVE, ALTRE SONO MORTE TENTANDO DI DIFENDERSI STRENUAMENTE – NEI VILLAGGI COME QUESTO, VIVEVANO LE PERSONE PIÙ APERTE E DIALOGANTI CON I PALESTINESI E ALLA PACE. E ORA DICONO: “NON C’È ALTERNATIVA ALLA GUERRA A GAZA…”

 

Estratto dell’articolo di Micol Flammini per “il Foglio”

 

il kibbutz di be’eri, assaltato il 7 ottobre da hamas foto di micol flammini 1

E’ il primo giorno di semina del grano in Israele e il lavorìo nei campi vicini ai kibbutz nella parte meridionale del paese si muove sulle note di un canto: “Il grano tornerà a crescere”. E’ una promessa ed è anche un lamento funebre composto dopo la guerra dello Yom Kippur a Beit HaShita […].

 

Oggi si semina, domani il grano tornerà a crescere, ma a Be’eri, che di figli il 7 ottobre ne ha persi ottantasei, per il momento non si torna a vivere. Qui si lavora, si manda avanti l’economia, ma per ripopolare le case di quotidianità e svuotarle dalle macerie tutti vogliono la sicurezza che i terroristi non torneranno per uccidere e rapire né a piedi, né in deltaplano né  con il bulldozer, e che i missili non cadranno più.

 

il kibbutz di be’eri, assaltato il 7 ottobre da hamas foto di micol flammini 4

[…] Alon, come tanti  abitanti del Kibbutz, il 6 ottobre era a una festa. Erano riuniti nell’unico teatro della comunità per ricordare la notte in cui nel Negev vennero costituiti gli undici punti che avrebbero dovuto ispirare il futuro stato di Israele: tra questi c’era Be’eri, un kibbutz rimasto alle sue regole originarie, in cui chi ci vive affida parte dei suoi guadagni alla comunità e contribuisce alla sviluppo di tutti.

 

“E’ stato un Olocausto di un giorno”, dice Alon parlando del 7 ottobre, “vogliamo tutti tornare qui, ma prima dobbiamo avere la certezza che vivremo in pace. […] deve esserci un cambiamento nella Striscia e Hamas deve essere eliminato”.

 

La scomparsa dei kibbutz renderebbe Israele più fragile, dove c'è vita non ci sono zone d’ombra e poi in queste comunità c’è l’essenza dello stato ebraico […].  […] “Io sono un pacifista”, ripete con orgoglio, “qui lo siamo tutti e non c’è contraddizione nel dire che non vedo altra alternativa alla guerra a Gaza. Non credo che esistano davvero dei pacifisti in grado di pensare che la branca dello Stato islamico che ci ha attaccati non debba essere eliminata”.

assalto kibbutz hamas

 

[…] Alon ha trascorso il 7 ottobre a tenere la maniglia del suo mammad, il rifugio dentro casa, che i terroristi cercavano di forzare. […] Sono andati subito a cercare gli israeliani nei loro rifugi. Hanno dato fuoco alle case in modo che le fiamme raggiungessero queste stanze della salvezza divenute trappole, oppure hanno sparato contro le porte che non bloccano i proiettili dei kalashnikov. […]

 

Chi invece è andato subito per strada è stata la kitat konanut, la squadra di sicurezza che è presente in ogni kibbutz, è composta da civili che hanno terminato il servizio militare ormai da tempo, che sparano una volta all’anno soltanto per assicurarsi che le armi di cui ogni comunità dispone funzionino ancora.

 

gli israeliani recuperano frammenti di ossa al kibbutz di be eri

Yair è stato meno fortunato di Alon, fa parte della squadra, aveva un’arma in casa e appena sentiti gli altri membri della kitat konanut ha preso la bicicletta e si è diretto verso il deposito del kibbutz. Non sono arrivati tutti all’appuntamento, lui e altri compagni sono andati incontro ai terroristi con sei armi in tutto. Li vedevano saltare da un balcone all’altro, urlare,  uccidere.

 

Yair ha visto un miliziano colpire un abitante del kibbutz con un’ascia. I terroristi  avevano già preso possesso di alcune case e sparavano dalle finestre. Quando parla Yair trattiene le lacrime e il fiato, conta i compagni morti, lui è uno dei pochi sopravvissuti e dopo una fuga con un proiettile conficcato nell’inguine ha trovato riparo nell’ambulatorio dentistico del kibbutz che si era trasformato in una base medica, presa subito di mira dai terroristi.

 

il kibbutz di be’eri, assaltato il 7 ottobre da hamas foto di micol flammini 2

Yair si è nascosto sotto un lavandino mentre perdeva sangue ed è scampato al lancio di due granate, una delle due non è esplosa. Ai sopravvissuti resta il ricordo e la domanda costante: perché io e non loro? […]

 

[…] I resistenti del kibbutz sono rimasti prigionieri per dieci ore,  poi è arrivato l’esercito che è riuscito a liberare la zona soltanto il martedì dopo. Ogni casa rimasta in piedi ha delle scritte sulle pareti esterne, indicano il giorno in cui i soldati sono entrati e hanno portato via bombe inesplose e corpi di terroristi e vittime. 

 

[…] A Be’eri si cammina  su quel che rimane dei dispersi, si cercano i frammenti di corpi, ossa, tracce, qualcosa di umano che racconti la fine della storia. Così è stato per Vivian Silver, attivista, pacifista, bruciata viva dentro al mammad. Di lei non è rimasto che un piccolo frammento ritrovato due settimane fa tra le macerie della sua casa, e a quella reliquia è stata dedicata una cerimonia funebre. A Be’eri tutti la ricordano come una donna convinta e risoluta, devota a un’idea di pace che non era l’unica a coltivare.

 

MICOL FLAMMINI

[…] A Be’eri si vive con la barriera addosso, con i droni in testa e per terra ci sono ancora i segni del bulldozer usato per entrare e attaccare il kibbutz. Viene da pensare che vivere qui sia scomodo, pericoloso, desueto, intriso di nostalgie socialiste che non contano più. Invece esiste una certa spocchia da kibbutz, un orgoglio sano e giusto da comune che ha dato allo stato le sue origini e che adesso insegna a curare il dolore, a gestire la ricostruzione e soprattutto a trovare il significato legittimo della parola pace.

 

 Be’eri e gli altri kibbutz si trovano in una zona che viene chiamata Otef Aza: la busta, il contorno di Gaza. Il 7 ottobre queste comunità sono state invece il contorno di Israele, la protezione, il sacrificio. Lungo la strada 232 si vedono i campi, i trattori, i soldati. Ed è difficile non pensare al lamento “Il grano tornerà a crescere”. Ed è ingenuo non immaginare che da questa guerra Israele uscirà cambiata. Ed è impensabile che il cambiamento non parta ancora una volta da un kibbutz.

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