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Michele Smargiassi per “la Repubblica”
Pensateci bene prima di digitare sul cellulare quel che pensate della bad girl che mostra il sedere su Instagram. Il rischio non è la querela. Peggio: potreste scoprire che il vostro feroce commento ha prodotto un’opera d’arte esposta alla Tate di Londra.
Come è successo ai follower caduti nella rete di Amalia Ulman, ventiseienne, argentina trapiantata a Los Angeles, celebrata come la prima instagrammer a sfondare le porte di un tempio dell’arte contemporanea.
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In verità, di fotografi che si sono buttati sul più frequentato social visuale ce ne sono parecchi, e sponsorizzare mostre di mobile phone è diventata da noi una risorsa da assessori alla cultura in crisi di idee. Ma Amalia ha fatto ben altro.
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Studentessa d’arte a Londra, già avvistata da un guru della scena artistica come Hans Ulrich Obrist, due anni fa comincia a usare Instagram come laboratorio. La sua intenzione è trasformare in arte concettuale i meccanismi stessi di Instagram, sfruttando le reazioni pavloviane dei suoi utenti.
Ha trascinato così il popolo di Instagram (il suo profilo ha 120 mila seguaci) in una trappola accuratamente pianificata. Mica male per una poco più che ventenne dalla faccina pulita com’era quando cominciò a tessere la sua tela, presentandosi come timida candy girl, ragazzina di provincia con ambizioni d’artista, migrata in cerca di fortuna nella metropoli, genere honey pie goes to Hollywood, ma ancora ingenua nei suoi selfie col pigiamino rosa, il coniglietto e i codini.
Ottenuto un seguito di ammiratori, la brusca svolta: la piccola Heidi diventa hot girl, si esibisce in lingerie, pose provocanti, involgarisce il linguaggio, cambia look in torbido- tossico, va in depressone: è il secondo atto della commedia, la Traviata, i suoi fan non sanno che è tutto finto, chi si entusiasma, chi la insulta.
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Fino a che, terza svolta: pentita, Amalia diventa salutista e vegana, yoga-spremute, basta foto osé, ora posta quelle dei suoi tramezzini di avocado, sempre fra applausi e ingiurie del pubblico virtuale.
Poi, d’improvviso la sua photostory si ferma dopo quasi duecento immagini, e il personaggio scompare. Per riapparire in forma di opera dal titolo Excellences & Perfections, inclusa nella mostraPerforming for the Camera,
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una storia dei rapporti fra arti del corpo e fotografia ora in corso alla Tate (e prossimamente anche alla Whitechapel). La definiscono geniale. Ma il suo artist’s statement è banale: «Ho voluto dimostrare che l’identità femminile è solo una costruzione sociale ».
La storia della fotografia conosce parecchie artiste che abbiano esplorato il tema, dalla nobildonna- spia contessa di Castiglione alla polimorfa attivista gay Claude Cahun, fino a quel caleidoscopio identitario che è Cindy Sherman coi suoi finti fotogrammi da film mai girati. Di quest’ultima, peraltro, la Ulman sembra aver preso un viso di gomma e la capacità proteiforme di incarnarsi in mille persone diverse.
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Ma in quei casi l’opera arrivava al pubblico già fatta e finita e, tranne qualche ingenuo, gli spettatori sapevano di guardare un lavoro d’autore e non la vita vera di una donna. Gli spettatori (o le cavie?) di Amalia invece no. Ci sono cascati (non tutti, qualcuno mangia la foglia, «ma è un falso? », però timido e inascoltato), hanno interagito con quella che pensavano fosse una storia vera, hanno collaborato inconsapevolmente, anzi sono diventati loro stessi il contenuto dell’opera.
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Il modo di lavorare della Ulman somiglia semmai a quello di un’artista unica nel suo genere, Sophie Calle, che coinvolgeva partner inconsapevoli nelle sue performance (pedinando sconosciuti di cui era riuscita a procurarsi l’agenda, travestendosi da cameriera d’albergo per spiare nelle loro borse…).
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Lei lo faceva nel mondo reale. Amalia ha varcato la soglia di quello virtuale, che è mostruosamente più vasto e ribollente. Per la prima volta, insomma, la “socialità aumentata” di Instagram è stata sconvolta da una provocazione che ne ha messo a nudo “da dentro” l’inconscio collettivo, il modo in cui sul web le idee sulle donne si cristallizzano in pregiudizi, i pregiudizi si gonfiano in intolleranza, l’intolleranza esplode in aggressività.
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Però, a pensarci bene, costruire la propria finta identità a colpi di selfie è poi quello che fanno tutti quelli che usano Instagram come un diario in pubblico. Instagram è un meccanismo performativo di per sé. Sui social, siamo tutti Fregoli, indossatori di identità posticce.
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La differenza fra la screenager compulsiva e l’artista è solo che la seconda, a un certo punto, ci fa una mostra. Ma è una differenza che, Warhol ci insegnò, può diventare molto sottile, e forse è già svanita. Instagram è la Tate Gallery delle nostre performance artistiche quotidiane.
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