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    “DAGO IN THE SKY” - STASERA SKY ARTE, 21.15, PUNTATA DOPPIA, STARRING CARLO VERDONE: “FARMACIA, LA NUOVA CHIESA” (NON È UN CASO SE L’ASPIRINA ASSOMIGLIA A UN’OSTIA) - LUCA BEATRICE: “PER PASSARE IN TV, L’ARTE DEVE “SPORCARSI LE MANI” USCENDO DALL’ALVEO PROTETTO DEI MUSEI E AFFRONTARE IL MONDO. E QUI DAGO NON SI FA PREGARE, SCHERZA CON I SANTI, CI INSINUA IL DUBBIO CHE QUEL FAMOSO RE GIRI ANCORA NUDO” - VIDEO


     
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    DAGO in the Sky: da martedì 7 novembre su Sky Arte HD (21:15)

    DAGONOTA

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    Dopo la pausa natalizia, “Dago in the Sky” riparte con una puntata doppia, starring Carlo Verdone: “Farmacia, la nuova chiesa”. Secondo voi, è un caso se la pasticca dell’aspirina assomiglia a un’ostia? E’ una fatalità che la farmacia abbia scippato come insegna la croce, logo di Cristo?

     

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    E’ solo una coincidenza se gli officianti hanno la stessa uniforme: ovvero il camice del medico e la tunica del prete? Sono le domande che si pose nel 2007 Damien Hirst – discusso prodigio dell’arte contemporanea - quando realizzò un celebre lavoro che porta il titolo di “New Religion”, opera che testimonia il trionfo della scienza sulla fede e della farmacia sulla chiesa. Lo sforzo immane di separare la vita dalla morte, scongiurandola, ha condotto tutti noi in una nuova chiesa, la farmacia, alla ricerca continua di un antidoto alla fine.  Ospiti: Carlo Verdone, Mons. Filippo Di Giacomo e il giornalista e scrittore Pierluigi Panza

     

    L’ARTE DEVE ACCETTARE IL RISCHIO DI CONTAMINARSI, DI “SPORCARSI LE MANI”

    LUCA BEATRICE LUCA BEATRICE

    Luca Beatrice per Film TV - https://filmtv.press

     

    E’ sempre stato un matrimonio difficile quello tra le arti figurative, statiche per definizione, e l’ambito di ciò che Gilles Deleuze definiva “L’image mouvement”. Se da una parte, dagli anni ’70 in poi, cinema e video sono diventati mezzi e strumenti sempre più utilizzati dagli artisti, va anche detto che il grande e il piccolo schermo, in assoluta coincidenza temporale, tentano di raccontare l’arte, sostanzialmente in due grandi filoni espressivi: fiction e documentari sulle vite degli artisti, programmi di divulgazione di un mondo frequentato solo dagli addetti ai lavori.

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    Caravaggio e Andy Warhol. Michelangelo e Jean-Michel Basquiat. Artemisia Gentileschi e Frida Khalo. Spesso i cosiddetti biopic, prodotti cinematografici anche piuttosto interessanti, affrontano prima il personaggio che l’artista. Gente fumantina, dal carattere difficile, geni romantici incompresi dal proprio tempo, invisi alla gente comune, in attesa che la storia dia loro ragione e li idolatri come rockstar.

     

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    Su tale falsariga a novembre, ma solo per pochi giorni anche se l’ottimo riscontro ha consigliato la distribuzione di prolungarne per un po’ le proiezioni, è uscito Egon Schiele diretto da Dieter Berner, storia del fragile pittore viennese, del suo rapporto ambiguo con il sesso, i suoi guai con la censura. In dicembre, invece, si è vista

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    L’arte viva di Julian Schnabel di Pappi Corsicato: dopo quattro film da regista, il grande pittore americano è voluto tornare al suo mestiere originale che lo ha reso una leggenda a New York. Se pensiamo che per il suo esordio dietro la macchina da presa, più di vent’anni fa, scelse di raccontare la breve vita del collega (più che amico) Basquiat, e come se oggi avesse voluto chiudere il cerchio, rimettendosi lui al centro della scena, con i suoi quadri giganteschi e i morbidi pigiami di seta con cui si presenta alle inaugurazioni.

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    Sotto Natale ‘Loving Vincent’ ha accontentato i numerosi fan di Van Gogh con un film dal linguaggio sperimentale, totalmente dipinto e animato sulla base dei quadri del Maestro olandese, premiato al festival di Annecy.

     

    Sono sempre belle le storie degli artisti: avventurose, eroiche, pirotecniche e colorate. Anche la tv se ne è accorta da alcuni anni, da quando la programmazione di Sky Arte ha convogliato un pubblico sì di nicchia ma sempre più numeroso, poiché nel palinsesto non troviamo solo pittura ma anche musica, teatro, letteratura.

     

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    Un tempo, nella vecchia televisione di Stato, l’arte era affrontata con un taglio accademico, serioso, pesante anche se ritrovare nelle teche Rai questi antichi documentari dà sempre un brivido di piacere, intanto perché sono tra i pochi strumenti di studio non libresco, e poi perché spesso a fianco dei pittori vi erano fior di intellettuali, in particolare scrittori, impegnati in esegesi niente affatto superficiali. Guttuso e de Chirico, Fontana e Melotti, i grandi del secondo ‘900 italiano nei loro studi, tra vita e opera, certo relegati o orari impossibili, ma in linea con la missione educativa della televisione ai tempi del monopolio.

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    Ad eccezione di qualche trasmissione “sperimentale” come L’angelo e Le notti dell’angelo, programmate la domenica notte su Italia 1 negli anni ’90 e ideate da Gregorio Paolini, l’arte se non spartita dalla tv era scivolata nel più generico intrattenimento. Questione niente affatto trascurabile e base per il format, davvero interessante, ideato da Roberto D’Agostino, uno che ha sempre voluto far passare concetti alti anche nello svacco del giornalismo Cafonal del suo celeberrimo Dagospia.

     

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    Dopo i lusinghieri successi delle due serie la scorsa stagione, Dago in the Sky è tornato con un terzo blocco di dieci puntate in prima serata -e numerose repliche- cambiando in parte forme e contenuti. Basta insistere con il formato smartphone, più ospiti e meno monologhi del conduttore, temi monografici trattati con la solita verve dissacrante, avendo sempre l’intuizione e il merito di catturare questioni calde e trasversali (non potrebbe essere diversamente, visto l’esercizio quotidiano di Dagospia).

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    Fiction e Internet, il porno e l’omosessualità, la rivoluzione digitale nella politica e la moda -ormai insopportabile- del food, i nuovi ricchi di Instagram e i tatuaggi, il kitsch e la spiritualità, i robot e il fenomeno delle fiere -qui mi ha invitato a discutere con lui insieme alla direttrice della Quadriennale di Roma Sarah Cosulich e all’artista Francesco Vezzoli, inutile dire che mi sono divertito molto.

     

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    Che c’entrano tutte queste storie con l’arte? Il punto sta proprio qua. Per passare in tv, in qualsiasi forma ce la immaginiamo oggi, l’arte deve accettare il rischio di contaminarsi, di “sporcarsi le mani” uscendo dall’alveo protetto dei musei, delle gallerie, dei vernissage, e affrontare il mondo. E qui Dago non si fa pregare, scherza con i santi, ci insinua il dubbio che quel famoso re giri ancora nudo. Molto molto più convincente dell’acclamato The Square, di cui già vi ho raccontato qualche numero fa.

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