DAGOREPORT – AVVISATE IL GOVERNO MELONI: I GRANDI FONDI INTERNAZIONALI SONO SULLA SOGLIA PER USCIRE…
Federico Ercole per Dagospia
Laddove passa il piccolo Hugo non cresce quasi più niente, altro che Attila, salvo masse oceaniche di ratti, folle pestilenti dagli occhietti rossi che annientano città intere seppellendo buoni e cattivi sotto i loro fetenti corpi pelosi di roditori, oppure infettandoli del morbo letale, annientando paesi e città con una ignobile potenza catastrofica.
Cosicché verrebbe in mente a chiunque di tenere questo “tenero” super untore lontano dai luoghi abitati e ad un certo punto la sorella Amicia (mannaggia a te, direbbero i poveri popolani agonizzanti, non potevi pensarci prima) si ricorda di avere un possedimento tra i monti e di portarvi il fratellino, ma è troppo tardi perché la sciagura è servita.
Ecco il ritorno di Hugo e Amicia dopo A Plague Tale Innocence (un videogioco davvero notevole del 2019) nell’ancor più luttuoso seguito Requiem, un’opera assai meno riuscita e distribuita a fine ottobre per console e PC tra videogame più meritevoli di attenzione, ma candidata comunque ai Game Awards come “migliore gioco dell’anno”, fatto che ci ha spinto a recuperarla e a domandarci come sia stato possibile che il lavoro di Asobo Studios sia stato considerato tra i concorrenti al titolo malgrado la futilità dell’evento milionario di premiazione.
Non che A Plague Tale Requiem sia da condannare in tutto, è disponibile anche su Game Pass e se siete abbonati al servizio Microsoft vale comunque la pena provarlo, soprattutto se avete amato il primo episodio. I panorami del titolo medievale di Asobo sono di una bellezza ancora più travolgente anche quando sepolti dall’orrore più bestiale e necrofilo.
Il gioco alimenta una costante meraviglia quando ci consente di muoverci con libertà e lentezza per bucolici panorami provenzali e mediterranei, passeggiando per prati verdi e violacei di fiori di lavanda, ammirando le acque cristalline che si infrangono su ripide scogliere, sostando all’ombra di boschi segmentati da ruscelletti sussurranti, attraversando i vicoli e le piazze di borghi animati dai colori del dì di festa...
Se A Plague Tale Requiem si fosse limitato a farci camminare, discorrere e indagare tra l’illustrazione meravigliosa della sua natura e delle sue architetture, come d’altronde succede in un paio di ispirati capitoli, avrebbe potuto essere un grande videogame contemplativo. Invece no, e non si tratta dei topi che affossano il bello in un macabro iperbolico ma efficace nella sua sciamante pittoricità, sono proprio le dinamiche ludiche che dopo poche ore cominciano a pesare in una maniera straziante; perché comunque non si riesce ad abbandonare il gioco, più o meno avvinti dalla discutibile sceneggiatura ma soprattutto per tornare a mirare un ultimo panorama. A Plague Tale Requiem coglie le criticità germinali ma comunque ininfluenti di Innocence elevandole all’ennesima potenza.
ORRORE MEDIEVALE
Ambientato pochi mesi dopo la fine di Innocence, intorno alla metà del 1300, Requiem comincia nei pressi di Arles facendoci giocare a nascondino e con delle barchette di legno per luoghi ameni , un preludio squisito che subito precipita nel dramma quando Hugo e Amicia entrano nei domini di apicultori assai intransigenti con chi viola il loro territorio. Eccoci quindi ad Arles dopo qualche avventura che si accorda al primo episodio (nasconditi e tira un sasso con la fionda per eliminare un nemico o distrarlo se ha un elmo) non risultando ancora tediosa.
Ad Arles è tutto meraviglioso ma ecco che la Macula, le peste originale che affligge Hugo, comincia a manifestarsi di nuovo perché il bambino è (giustamente) inquieto per la poca sensibilità dell’alchimista che lo cura. Così ecco le fiumane di topi, morte ovunque laddove c’era la vita, così torniamo ad evitare i milioni di ratti con i diversi e già rodati stratagemmi alchemici e luminosi di Amicia. Ma va ancora tutto bene...
Il dramma è che dopo più di dieci ore sfiancanti, salvo qualche rara e poco utilizzata, persino poco ispirata aggiunta alle dinamiche di gioco dell’originale (tipo un improbabile minerale poliedrico che indirizza i raggi di luce), non cambia nulla, solo i panorami. I nemici sono sempre gli stessi tre o quattro modelli; i modi per distrarli o eliminarli pressoché identici; la ritmica è penosamente dilatata in un climax che non giunge mai, nemmeno in un finale che dovrebbe essere emozionante ma che è solo liberatorio. Addirittura insostenibili i momenti in cui ci si ritrova ad affrontare ondate di nemici, tanto che conviene “settare” la modalità di gioco più facile per andare oltre e dimenticarsene.
In tutta questa piattezza e ripetizione ci sono inoltre delle sbavature quasi imbarazzanti nella sceneggiatura, come la già citata idea tardiva di Alicia di portare Hugo in isolamento tra i monti. Hugo, che dopo avere camminato in inferni di putredine, di fiamme e di violenza si spaventa del belato di una capra o intima alla sorella di stare attenta perché sotto una pietra potrebbe esserci un ragno: esempi di una sceneggiatura che dovrebbe portarci ad empatizzare con il bimbo, ma falliscono miseramente nella loro totale incredibilità.
NESSUN SENTIMENTO
Al contrario del primo episodio in Requiem è raro provare delle emozioni che non siano solo estetiche, la dolente protagonista Amicia, Hugo e i loro più o meno sventurati compagni di viaggio non alimentano sentimenti, solo disappunto. Non bastano il convincente “level design”, lo splendore e l’orrore dei panorami che dimostrano l’arte arte di Asobo nel dipingere visioni, le musiche adeguate e puntuali che tuttavia si perdono nella palude di una storia insipida, senza pathos e superficialmente soprannaturale.
Non basta tutto ciò che è d’innegabile bellezza in Plague Tale Requiem a salvarlo dallo squallore ludico e dal tedio che sorge durante il suo svolgimento; anzi l’esistenza di questa bellezza inquieta ancora di più, perché vi si manifesta un potenziale dissipato mentre sorge la malinconia per quello che questo videogioco e i suoi personaggi avrebbero potuto essere. Eppure malgrado lo strazio, si giunge alla fine, quasi un esperienza masochistica di piacere frammisto al dolore.
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