Federico Ercole per Dagospia
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“Un bel gioco dura poco” dichiaravano i genitori e gli insegnanti e noi non ci credevamo, pensando che mentissero per comodità, egoismo e necessità educative. O almeno così dicevano a noi bambini di un mondo privilegiato e non afflitto che avevamo la possibilità di giocare. In realtà, avremmo scoperto crescendo, forse non era ad una specifica attività ludica che si riferivano gli adulti di allora ma a tutte le cose belle, come l’infanzia, l’amicizia e l’amore. La vita. Ogni cosa si rivela corta in una maniera tragica quando si sta esaurendo, quando è ormai concentrata solo in un ricordo, indifesa dal futuro. Chissà quindi se i grandi non intendessero comunicarci, loro che già sapevano, una loro specie di “carpe diem”.
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Sono questi pensieri malinconici, depressi e persino insulsi considerato il contesto, ma difficili da evitare, che sorgono in chi scrive nei lunghi, meditavi e nemmeno troppo giocosi momenti che preludiano la fine di Legend of Zelda Tears of the Kingdom, gli attimi in cui decido che una deriva avventurosa durata decine di ore deve giungere alla conclusione: ormai è ora di affrontare il nemico finale. Così è imminente il tempo di tornare ad una realtà di guerre, catastrofi, miseria, sfruttamento e presagi apocalittici. Di paure, dolori e fallimenti. “Un bel gioco dura poco” anche da grandi, persino un videogame di 200 ore con un potere di astrazione dalla realtà straordinario, balsamico come quello di rare opere d’arte e rarissimi giochi.
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Così mi dico “non andare, potresti trovare tutti gli oltre mille Korogu, perché ne hai scoperti solo quattrocento scarsi e sono tutti diversi! Oppure...”. Ma non ci sono scuse, devo finire l’avventura, e così la finisco. Ma non scivolo in quella tristezza che temevo, anzi. Tornare a vivere risulta più bello, l’effetto “curativo” dell’esperienza non si esaurisce con la stessa ma continua, si diffonde nella quotidianità. Gli adulti ci mentivano sul serio, con cinismo e amore insieme, un bel gioco, solo uno davvero bello, non dura poco ma continua nella memoria insieme ai ricordi più dolci, allungandoci la vita in verticale.
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Non è più quindi solo una questione di Zelda, un gioco così grande da sostituire/affiancare la vita in una negazione di “passatempo” ma di propedeutica alla speranza, di consolazione. Mi viene in mente quella canzone degli Helloween, World of Fantasy, “I wonder if I can handle it all, I wonder if I can carry the weight of the world”. Mi chiedo anche io (con una certa meschinità nel mio relativo benessere di occidentale) “se sarò in grado di gestire tutto, mi chiedo se posso sopportare il peso del mondo”. Dopo una cosa bella risponderei pù convinto di sì, e Legend of Zelda Tears of the Kingdom è una cosa bellissima.
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IL VIDEOGIOCO DEFINITIVO?
Gli ultimi anni non sono stati avari di capolavori elettronici, malgrado un pubblico che non riesce più a meravigliarsi o che cerca solo l’immediato divertimento di un’attività scervellata continui a lamentarsi. Il panorama indipendente, quello che sembra “indie” ma non lo è, quello delle medie e delle grandi produzioni, ci ha hanno offerto insieme opere notevoli, con un’abbondanza sorprendente. Solo durante gli ultimi mesi sono usciti Elden Ring e Titanic 2 Orchestra for Dying at Sea, Wayward Strand e God of War Ragnarok, Chained Echoes e Immortality, Resident Evil 4 e Pentiment, Teardown e Xenoblade 3...
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Ma bastano poche ore di Zelda Tears of the Kingdom per precipitare in una dimensione di “assoluto ludico” che viene amplificata mentre queste si sommano giorno dopo giorno, senza che ce ne accorgiamo, inducendoci a pensare che sia il videogame ultimo e definitivo.
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Non si tratta solo di come questo gioco ci induca a infrangere le regole, a immaginare una soluzione che risulta quasi sempre soggettiva e di successo, a costruire personali ed efficaci stramberie, a esplorare un mondo vastissimo e vivo di una natura palpitante e di un popolo non indifferente, a sperimentare armi nuovi per combattimenti che non si impongono quasi mai e invece si scelgono, alla libertà di approccio, ai suoi “dungeon” che perfezionano geniali intuizioni del passato in maniera rivoluzionaria o a che succeda sempre qualcosa di significativo anche se si gioca solo per venti minuti. Perché Tears of the Kingdom ha la facoltà di poetizzare anche la noia, la sosta prolungata per ripararci da un temporale, l’imprevisto, la sconfitta.
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Questo videogame ci fa giocare con i nostri pensieri, ci lascia usare lo sguardo senza tiranneggiarlo con usi eccessivi di una mappatura e quindi lasciandoci ammirare in maniera insieme creativa, contemplativa e funzionale l’orizzonte, premiando l’immaginazione e l’improvvisazione, un mondo fantastico che non si sovrappone alla fantasia del soggetto ma la alimenta contrappuntandola, eccitandola con una grazia gentile, divenendo un contenitore smisurato di avventure che ci illudono di essere i soli ad averle vissute e talvolta è davvero così.
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Visione ammirevole ed espressione assoluta di “game design” anche se contenuti da un’hardware, la Switch di Nintendo, che sebbene non sembri mai invecchiare potrebbe essere considerato obsoleto se comparato alle nuove console di Microsoft e di Sony o ai costosi PC, Tears of the Kingdom è anche uno straordinario panorama sonoro, dove i suoni della natura non sono ammutoliti dalla colonna sonora ma accompagnati con una complice, quasi muta poetica mentre la musica diviene pittura o emozione solo quando necessario, per dipingere le atmosfere di un villaggio, il terrore dell’ignoto e del terribile, il sentimento.
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Non è certo che Legend of Zelda sia il migliore gioco mai realizzato, tuttavia mentre lo si esperisce questa è una pura, assoluta convinzione.
LACRYMOSA
“For too long now there were secrets in my mind, for too long there were things i should have said. In the darkness I was stumbling for the door to find a reason, to find the time, the place, the hour” da Tears of a Dragon di Bruce Dickinson
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La storia e le storie di Tears of the Kingdom sono le più toccanti e profonde raccontate ed esperibili in un Legend of Zelda, diffuse nel mondo con lirica e geometrica perfezione. La trama principale non tratta solo di una lotta del bene contro il male, ma è il racconto di uno struggente sacrificio, di un’attesa solitaria durata eoni, di una silenziosa e dolente lotta. La principessa Zelda è qui protagonista malgrado la sua latitanza, le sue lacrime millenarie sono il cuore elegiaco di tutta la narrazione, il motivo che ci muove a viaggiare, a scoprire, ad aiutare chiunque ne abbia bisogno, anche solo per preparare una ricetta con ingredienti complessi, perché cucinare è ancora fondamentale e non solo per sopravvivere.
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Viaggiando a cavallo o a piedi per monti algidi, pianure erbose, deserti, spiagge e giungle; planando o volando tra i cieli su una mongolfiera o un bolide aereo improvvisato, sprofondando nell’oscurità del sottosuolo, nuotando o navigando con strani natanti per un fiume; arrampicandoci per pareti ardenti, ghiacciate o scivolose d’acqua; risolvendo in maniera personale l’astruso enigma di un Sacrario, in Tears of the Kingdom troverete sempre una storia anche se muta ed espressa solo dai suoi immensi panorami, oppure dalle nostre azioni.
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Il gioco d’avventura con un “mondo aperto” non sarà mai più lo stesso dopo Tears of the Kingdom, ma questo già si disse dopo Breath of the Wild e non è stato così, salvo alcune intuizioni eccezionali e derivative in Death Stranding e in Elden Ring, persino (nella varietà e umanità delle storie dei suoi abitanti) nel sottovalutato Horizon 2.
Vedremo cosa riserverà il futuro dei videogiochi e se Tears of the Kingdom sarà l’esempio di un nuovo modo di pensare i giochi e il loro rapporto dialettico, emozionale e ludico con il giocatore o l’ultimo, grandioso monumento ai videogame e alla loro storia.