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sergio mattarella giorgia meloni alla riunione del Consiglio Supremo di Difesa
Come scritto oggi dalla “Stampa”, il tanto vagheggiato e osannato presidenzialismo sognato dalla destra ha partorito un premierato piccolo piccolo. Il progetto di riforma costituzionale non soddisfa certo le ambizioni di Giorgia Meloni, poiché risulta molto annacquato rispetto alle aspettative originarie.
A lei, comunque, basterà appuntarsi la coccarda sulla giacca e vantarsi di essere l’unica Presidente del Consiglio in grado di portare a casa una riforma costituzionale che, qualora venisse approvata, non entrerà in vigore prima del 2029, quando cioè scadrà il secondo settennato di Sergio Mattarella.
sergio mattarella giorgia meloni centenario aeronautica militare
Nella versione originaria del progetto di riforma, qualora il Presidente del Consiglio fosse stato sfiduciato dal Parlamento, era previsto il ritorno immediato alle urne. Il compromesso finale contempla invece la possibilità, per il Presidente della Repubblica, di dare l’incarico a un esponente della stessa maggioranza, e solo se fallisce quest’altro tentativo è previsto il ritorno al voto.
Altro enorme, e decisivo, cambiamento tra la prima e la seconda versione della riforma è quello che riguarda la nomina dei ministri: inizialmente la Ducetta immaginava che fosse il Presidente del Consiglio ad avere questa prerogativa, che invece, alla fine, resterà in capo al Presidente della Repubblica, il quale, come è già avvenuto molte volte in passato, continuerà a esercitare un potere di interdizione sulla scelta dei ministri.
alfredo mantovano giorgia meloni
Nel lungo lavorio che ha portato dalla prima alla seconda versione saltano sostanzialmente le possibilità di avere un governo tecnico, viene impedito ogni cambio di maggioranza, con il solito andirivieni di peones e “responsabili” dell’ultima ora disposti a offrirsi al miglior offerente.
La riforma costituzionale prevederà, giocoforza, anche un cambio della legge elettorale, che sarà improntata a un sistema maggioritario con premio del 55% assegnato su base nazionale. Sarà prevista una sola scheda, con cui votare sia il premier, sia le Camere.
alfredo mantovano
La preparazione del Ddl di riforma ha visto Maria Elisabetta Alberti Casellati Vien dal mare e il sottosegretario, Alfredo Mantovano, in costante consultazione con l’ufficio affari Costituzionali del Quirinale. Trattative necessarie perché Sergio Mattarella ha messo subito la pistola sul tavolo: se il progetto definitivo avesse intaccato pesantemente le prerogative presidenziali, la Mummia Sicula si sarebbe istantaneamente dimessa creando un cortocircuito istituzionale ingovernabile.
Il testo è stato sottoposto anche alla lettura e al giudizio di molti costituzionalisti, da Giuliano Amato a Sabino Cassese. Un parto difficile agli occhi dei giuristi per garantire un giusto equilibrio tra i poteri.
giuliano amato al copasir 1
Che succederà, ora, dunque? Come previsto dall’art. 138 della Costituzione, “Le leggi di revisione della Carta sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta, i due terzi dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione.
Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”.
sabino cassese foto di bacco
Pallottoliere alla mano, il Governo dovrà trovare in ciascuna Camera il voto favorevole dei due terzi perché, come già accaduto con Matteo Renzi, il referendum può riservare trappole pericolosissime.
LE MANOVRE SULLA MANOVRA
Nella preparazione della legge finanziaria, Giorgia Meloni l’ha fatta da padrona assoluta, con Giancarlo Giorgetti nel ruolo di comprimario al semolino. A prenderla in quel posto, senza vaselina, sono stati i due vicepremier, Matteo Salvini e Antonio Tajani.
I due “sfessati” (copyright De Luca) non hanno portato a casa un cecio lesso: il leghista è stato gabbato sulle pensioni e sul Ponte sullo Stretto, che resta una vaga promessa, senza una roadmap chiara.
Il re travicello forzista è stato invece ignorato sulla questione canone Rai. La riduzione del balzello più odiato dagli italiani da 90 a 70 euro lascia un buco di 450 milioni, che nella Manovra sarà coperto dalla fiscalità generale, ma solo nel primo anno. Poi si vedrà. Tajani, invece, aveva chiesto un periodo finestra di tre anni, anche per evitare fastidiose grane al bilancio di Mediaset.
MATTEO SALVINI GIANCARLO GIORGETTI
Il governo, per “coprire” il mancato incasso del canone, potrebbe infatti innalzare il tetto alle pubblicità per Viale Mazzini. Una decisione che avrebbe un immediato effetto negativo sui conti delle tv commerciali, concorrenti del servizio pubblico.
Attualmente la Rai ha un limite del 6% di pubblicità ogni ora, dalle 6 alle 18, e del 12% nella fascia serale. Le tv private, invece, possono arrivare al 20. Qualora il tetto della Rai si innalzasse, Mediaset e La7 di Cairo si troverebbero un concorrente più agguerrito nella caccia agli inserzionisti pubblicitari.
GIANCARLO GIORGETTI
Lo sgarbo al Biscione e a Urbanetto è molto piaciuto a Matteo Salvini, che da un lato ce l’ha a morte con Cairo per lo schiacciamento su Giorgia Meloni del “Corriere”, da una parte. Dall'altra il Capitone si ritrova, privo del caro Massimo Giletti, tutti i programmi de La7 che lo cannoneggiano da mane a sera.
E infatti, come segno di pace oggi il quotidiano di Fontana apparecchia una paginata di intervista proprio al Capitone, come beau geste distensivo. Dall’altro il Truce, con l'idea di segare di 20 euro il canone Rai, dà un colpetto alla famiglia Berlusconi, che ormai sembra averlo relegato all’irrilevanza quando, non più tardi di un anno e mezzo fa si ipotizzava la famosa federazione Lega-Forza Italia. Ora, può dire ai ragazzi di Arcore: Signori, io ci sono e dovete fare i conti ancche con me.
Quel merluzzone di Tajani non è stato supportato nelle trattative da Gianni Letta: non solo perché l’Eminenza azzurrina non stima il Ministro degli Esteri, ma anche perché da quando è passato a miglior vita Silvio Berlusconi, è venuto a mancare l’unica persona in grado di spingerlo all’azione.
matteo salvini raccoglie basilico
Sia nella trattativa con gli alleati, sia nei rapporti con Bruxelles e con le agenzie di rating, Gioirgia Meloni deve dire grazie e accendere un cero all’esplosione della guerra tra Israele e Hamas, unitamente al perdurare del conflitto in Ucraina, che la tiene al riparo dalla speculazione e da severi giudizi sia dell’Unione europea sia dei mercati.
Infatti si inizia a profilare un parere sostanzialmente positivo della Commissione che, ad eccezione di pochi rilievi, dovrebbe accogliere la Finanziaria. D’altro canto, Standard & Poors e DBRS hanno confermato il loro rating dell’Italia, come, a meno di grosse sorprese, faranno anche Fitch e Moody’s. Nessuno può permettersi, in questa fase, di spingere un paese come l’Italia verso il default.
GIORGIA MELONI ALLA FIERA DEL TARTUFO DI ACQUALAGNA
Sbrigata la pratica della legge di bilancio, restano “appesi” altri due dossier, che viaggiano a braccetto: l’approvazione del Mes e la riforma del Patto di stabilità sono collegati.
Alla fine, come ampiamente anticipato, Giorgia Meloni dirà sì all’approvazione del trattato sul Fondo Salva Stati, magari con l’impegno politico a non farne mai uso.
In cambio, la trattativa sul Patto di Stabilità porterà a posizioni più morbide verso i paesi più indebitati (Italia in prima fila). L’accordo va trovato entro la fine dell’anno, altrimenti torneranno in vigore le vecchie regole, che sarebbero una mannaia sul collo della Sora Giorgia.
giorgia meloni in sella a un drago
Le trattative sono avanzate: il nuovo patto di stabilità dovrebbe prevedere un innalzamento della soglia del deficit dal 3 al 4% (c’è chi si spinge a ipotizzare una soglia massima del 4,3%), riconoscendo il potere discrezionale alla Commissione di decidere come intervenire, Paese per Paese, sui piani di rientro.
Gli Europoteri che non amano Giorgia Meloni resteranno a guardare, aspettando il 9 giugno, data delle elezioni europee che potrebbero certificare l’irrilevanza dei conservatori di Ecr e dunque della Ducetta, all’interno delle dinamiche brussellesi. Non solo: per quella data, molti si aspettano un importante cambiamento sullo scenario mondiale.
GIORGIA MELONI
Prima le elezioni in Russia, poi l’inizio della campagna elettorale per la Casa Bianca, congiuntamente ai serratissimi negoziati tra Stati Uniti, Qatar, Cina e Arabia saudita, il disordine mondiale potrebbe essere riportato sotto controllo. A quel punto, il tappo alle magagne sui conti pubblici italiani potrebbe saltare.
giorgia meloni giancarlo giorgetti