Stefano di Michele per "il Foglio"
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Come impiegati coreani nell’ora d’aria, come marinai mentre scortano l’ammiraglio in visita sull’incrociatore, come disciplinati cresimandi col sacro crisma renziano unti, come presentatori delle “Iene” ancora in sala trucco, come contadinelli del Pascoli “vestiti di nuovo / come le brocche dei biancospini!”, calzati però – così stanno.
Simili all’uomo in ammollo pubblicitario (ma colava detersivo su di sé, anziché scolare tortellini) che candido e scamiciato, dopo vigoroso scozzamento, dalle acque quasi botticelliana creatura sortiva – così sembrano. Tutto quel bianco di camiciole sopra, tutto quel nero di braghe sotto (a parte i jeans del ginnico compañero spagnolo Pedro detto “el guapo”), tutti quegli occhioni spalancati a favore di fotografi e masse popolari, con curioso effetto evocativo della riserva dei panda di Chengdu (Cina sud-ovest, a est di Bologna) – così evocano, compresi i 58 yuan di biglietto d’ingresso. Come le sette (cinque, diciamo) spose per i sette fratelli – in virginal candore.
festa dell'unità bologna matteo renzi pedro sanchez
Luminoso trionfo tanto del riformismo quanto della candeggina. La fenomenale apparizione, in orizzontale disposizione, con nitore di cotone e carni a evocazione delle ignude ballerine filmiche di Mrs Henderson, ha marcato la nuova fase di avanzamento del socialismo continentale: né Terza né Quarta Internazionale, piuttosto risciacquo (in Arno) e centrifuga e vigorosa stiratura – appunto eccoli: piallati e sterilizzati e ammirati.
selfie matteo renzi twitter poi cancellato 2
Un deciso passo oltre, con nitido e insieme maschio azzardo, persino rispetto ai biancovestiti del Cav., che i suoi vent’anni fa smutandava e allineava (in verticale, però: dietro di lui, come cignotti dietro mamma cigno) sotto il sole aspro delle Bermuda. Ma lo stesso, a sinistra è periglioso il bianco. Trattasi di grande azzardo cromatico – e infatti, e a ragione, in coro si cantava: “Bandiera bianca la vogliamo: no! / Perché l’è il simbolo dell’ignoranza / bandiera bianca la vogliamo: no!”.
Al massimo, finora, si era registrata la scossa futurista del fasciante completo blu elettrico della ministra Boschi, vagante per i saloni del Quirinale; persino qua e là, con sguardo rapace e rapito di milite sull’attenti davanti a qualche portone istituzionale, azzardi di scarpa tacco dodici, che a femmine a caratura berlusconiana provocava magari l’appellativo di “miss Topolona”, e adesso nelle cronache più recenti e più benevoli novellando vien inteso quale adeguato supporto per meglio in alto scrutare il radioso futuro che all’orizzonte si profila.
RENZI ALLA FESTA DEL PD A BOLOGNA
Siccome, checché se ne dica, fa il monaco, l’abito ha sempre fatto pure il comunista – e ovviamente, nelle successive sartorie, pure il democratico. Non subito, non immeditamente. Gramsci, nell’immaginario, è sempre e per sempre quello iconografico dallo sguardo profondo e la giubba abbottonata fin sotto il mento, evocativa di specifica dedizione: prete/soldato/seminarista/ rivoluzionario/comunista.
Fu nel Dopoguerra che la questione cominciò a porsi con ardore: avanzando la lotta per il socialismo e il rinnovamento della società italiana, si mise mano anche a quella per il rinnovamento del guardaroba.
Matteo Renzi all’arrivo alla Festa Nazionale dell’Unita? di Bologna
A farlo per primo, e con maggior convinzione, oltre che, si capisce, con assoluta autorevolezza, fu il compagno Palmiro Togliatti, alla causa del doppiopetto non del tutto esteticamente insensibile. Arrivavano in Parlamento, a guerra finita, a fascismo sconfitto, certi eletti comunisti che si tiravano dietro il cappottone delle eroiche giornate resistenziali, informi pastrani, pesanti elaborati rivoltati e rattoppati.
A Togliatti la cosa spiaceva non poco, quel rumoroso deambulare di deputati e senatori, ognuno simile al “picaro matriculado” vagante in certi romanzi cinquecenteschi – “mettetevi in testa che questo non è un Parlamento borghese che i deputati proletari devono combattere”, ordinava, disponeva, spiegava. Niente – le porte dell’armadio neppure dalla ferrea disciplina venivano varcate.
RENZI ALLA FESTA DEL PD A BOLOGNA
Un giorno, a un importante dirigente di Botteghe Oscure che il manufatto guerrigliero ancora ostentava, chiese tra lo sfottò e l’irritazione: “Facci sapere, compagno, se per caso il partito può fare qualcosa per procurarti un nuovo paltò…”. Fatica, e spreco di forze e fiato. Finché, in ascensore apparve la Nilde… Già Togliatti aveva avuto modo di notare, passato il primo durissimo impatto, una certa evoluzione che oggi lo esporrebbe sicuramente ad attacchi per poca politica correttezza: “Finalmente abbiamo delle compagne che non portano il 41 di scarpe…” – pur senza azzardare il 12 di tacco, come danzatrici della Wandissima.
E fu dopo la solare visione in ascensore, che il capo comunista riuscì a far comprendere con l’esempio ciò che faticava a far intendere con la teoria. Lì incrociò lo sguardo della giovane compagna deputata di Reggio Emilia, lì ne annotò il fascino del vestiario (oltre ad altro, si capisce, saltando con ardore la marmorea profezia dell’occhialuto Edoardo D’Onofrio, secondo il quale l’amore “si realizzerà a pieno soltanto con la vittoria del socialismo” – sì, buonanotte).
E agli altri, che le masse volevano guidare, quale esempio sartoriale da seguire la indicò: “La compagna con l’abito blu e il colletto bianco ha un vestito adeguato. Prendete esempio da lei”. Aveva anche un’altra fissazione – ma forse è più leggenda di altre, si spera – il compagno segretario generale: che erano da preferire le scarpe marroni, più vicine al sentire popolare, delle scarpe nere, che sempre calzavano il piede prepotente del padronato. Si appaiava idealmente, allora, l’estetica delle compagne dirigenti con quella dei compagni dirigenti – l’informale che nell’ineleganza sconfinava: chissà, come fosse il trucco o un principio di depilazione o un cappotto di taglio decente un tradimento della causa del proletariato.
RENZI ALLA FESTA DEL PD A BOLOGNA
“Un po’ trascurati, un po’ troppo abbigliati da ex rivoluzionari”, disse in seguito Nilde Iotti, rievocando quelle storie. Spiegò: “Ricordo che andavo in giro con una vecchia camicia di flanella di mio padre, rivoltata, ritinta con i coloranti Sutter che si usavano allora, ridotta ad abito e portata non so quanti anni” – quasi un’eleganza a chilometro (e costo) zero.
E scolpì, la donna indicata quale modello a tutte le altre compagne, un precetto degno di Coco Chanel: “Più che essere una donna elegante, mi interessa essere una donna correttamente vestita”. Il doppiopetto – si nota in tantissime foto di dirigenti comunisti – era già forte passione, ben prima dello sfarfalleggiare in sarabanda di asole e bottoni del Cav.
Giacca doppiopetto abbottonata, sopra cappotto doppiopetto abbottonato – una solennità che certo molto al profilo e alla comodità sacrificava, quieto tondeggiare tra palchi e riprese sui binari della stazione: “Il compagno X e il compagno Y di ritorno dal loro viaggio…”.
Renzi e il leader Psoe Pedro Sanchez al ristorante Bertoldo,
E certe foto in montagna dello stesso Togliatti e della Iotti: lui pantaloni di velluto alla zuava, calzettoni pesanti a rombi, scarponi; lei gonna ben sotto il ginocchio, calzini corti bianchi, scarpette senza tacco. Però mai troppo oltre si azzardò, mai con troppa fantasia ci si mostrò (gli allegri e bellissimi gilet colorati del compagno Antonello Trombadori, come il suo colbacco esibito pure sul tram numero 56, furono sempre una, forse invidiata, eccezione e una sua libertà, così come il fantasmagorico foulard al collo del compagno Macaluso): sempre appena un passo avanti alla possibile identificazione col militante votato alla ragioneria o alla conduzione di una cooperativa emiliana, ma mai troppo avanti.
Un grigiore rassicurante, una compostezza (lontana la vanità televisiva, inimmaginabile quella scostumata del selfie) posata, un’autorevolezza che si doveva leggere dai segni, quasi calligrafica (l’inchiostro verde, il solito Togliatti che incoraggia a suo modo un militante in imbarazzo davanti alla suprema visione:
BERLUSCONI MENTANA OCCHETTO
“Coraggio, compagno: mi dia pure del lei”), nessuno sbraco, di blu, ci si vesta di blu!, nessun svaccamento – da nessuna parte: persino Almirante, molto altrove, il doppiopetto esibiva, Andreotti e il doppiopetto erano tutt’uno, Aldo Moro con doppiopetto e cravatta pure in spiaggia si presentava, magari Nenni, ecco Nenni, lui azzardava qualcosa col basco.
Sapevano, magari senza sapere, che i vestiti sono “artifici semeiotici, cioè delle macchine di comunicazione” – prima ancora che Umberto Eco con acutezza lo spiegasse. Era, l’abbigliamento del comunista, similare nell’immaginario a quello del fuochista del “Titanic” degregoriano, “con quali occhi ti devo vedere / coi pantaloni consumati al sedere / e queste scarpe nuove nuove / (…) e una giacchetta per coprirti / e un berretto per salutare…”.
antonio gramsci
Così, in seguito, quasi nessun cronista che ebbe la fortuna di intervistarlo, poteva sottrarsi alla descrizione dettagliata del sofferto abbigliamento come del sofferto aspetto fisico del compagno Berlinguer, forse meno vocato di Togliatti alla correzione estetica del circondario – e dunque “un pallore grigio da fatica. Occhiaie. Rughe ben nette. Capelli come aghi di un istrice. Barba di fine giornata quasi bianca. Il vestito, poi, gli conferiva un’apparenza da funzionario di federazione.
Il solito abito carta da zucchero, un po’ informe. La cravatta rossiccia annodata alla meglio. Una camicia bianca qualsiasi” (Giampaolo Pansa): e allo sguardo del militante questa descrizione era quasi perfetta consacrazione dell’amatissimo segretario generale. Appunto: “Quello che faceva sembrare un monarca rosso soltanto un suddito del partito. E un leader comunista indiscusso appena una formica paziente della lotta di classe” (sempre Pansa). Ma ciò che si indossa è sempre un segnale che all’esterno si manda. E pure Berlinguer ben lo sapeva.
veltroni sabaudia
Racconta Massimo D’Alema i suoi disperati tentativi, durante un viaggio a Mosca per i funerali di Andropov, per evitare di indossare l’impegnativo copricapo dono dei compagni sovietici, soprattutto “lui non voleva essere fotografato con un colbacco”, perciò, a presidio e a scusa, si tirò dietro direttamente da casa sua “un curioso cappello tirolese” – “Il colbacco, compagno Berlinguer”. “Grazie, ho già il mio”. Così, più o meno – provando a non confondersi troppo con le cose (e soprattutto i morituri del Cremlino).
L’abito faceva, eccome, il comunista. Il fazzoletto bianco nel taschino di Alessandro Natta, le tasche delle giacche che Pajetta sfondava ficcandoci dentro i pugni, la severa durezza vestiaria della Seroni (“chiamami Seroni, sarò la tua sbirra!”, scandivano quelli del ’77), l’impeccabile Reichlin – a dire del periglio rappresentato dal bianco, raccontano di quella volta che, da direttore dell’Unità, proprio Reichlin incrociò un redattore, in seguito giornalista televisivo, tutto di candore vestito, come Mastroianni vigile urbano in certi film degli anni Cinquanta.
giancarlo pajetta napolitano berlinguer
Reichlin alzò gli occhi distratto, lo fissò e scandì: “Ragazzo, per me un caffè e un’acqua minerale!”. Poi, venne l’uomo in marrone… Nel secolo scorso, ci sono stati soprattutto due uomini in marrone di qualche rilevanza: quello del famoso romanzo di Agatha Christie – “The Man in the Brown Suit”; e Occhetto – Achille in the Brown Suit. Successe nel lontano 1994, durante il dibattito televisivo con Berlusconi. Si presentò, il segretario del Pds, appunto in abito marrone. Marrone! – neanche solo le togliattiane scarpe. Tutto, giacca e pantaloni, “completo marrone di taglio tardo-sovietico, con una cravatta marroncina dalla fantasia piuttosto mesta”, fu annotato.
Persino che “il completo marrone, che assurgerà a immagine ironica e traumatica per la sinistra italiana tutta” – esagerati!, ma persiste ancor oggi apposita pagina facebbok, “Il completo marrone di Occhetto”, dove sempre viene segnalato identico azzardo cromatico di altri capi della sinistra.
Matteo Renzi e Massimo D Alema
Si levarono allora dolenti rimostranze. Pure sul Corriere della Sera, “proprio lui, così elegante con i suoi gilet” (Maria Latella), si chiese l’opinione di Alba Parietti, “il leader del Pds quel vestito l’ha certamente comprato alla Standa”, si pronunciò sull’Espresso il corrispondente della Cnn, che esortava a “buttare quell’abito marrone”.
Proprio ad Achille doveva succedere, proprio al segretario fino a quel momento più fantasioso mai arrivato a Botteghe Oscure – lui che aveva debuttato in splendido bacio alla moglie Aureliana con informale e colorata camicia, e che in seguito, recuperata la sua libertà politica, darà libero sfogo a mille sciarpe colorate, occhialini con il cordicino, barba libertaria, giacche di velluto.
Spiegò appassionatamente, addirittura in conferenza stampa, il compagno Fausto Bertinotti, il travagliato percorso che lo vide in perenne accasamento, oltre che alle sorti (precarissime) del comunismo, a quelle ben più solide del cachemire – dall’acquisto di maglione usato dello stesso materiale da parte della signora Lella presso il locale mercato di via Sannio, (manufatto a uso interscambiabile) all’invio di altro maglione da parte di maestranze addette alla filatura, e qualche regalo dagli amici.
1975 - ENRICO BERLINGUER AD AVELLINO - DIETRO DI LUI ANTONIO BASSOLINO
E finale verifica sul posto con la cronista che aveva formulato la domanda, porgendo al tocco la giacca, “vuol provare a venire a vedere, secondo lei questa giacca di che cos’è?”, e saggia rivendicazione finale: “Mi dispiace, ma io penso che i comunisti possano anche essere eleganti”.
E tale era, per dire, uno dei comunisti più popolari nei decenni passati, il corsivista dell’Unità Fortebraccio, di cui sempre vennero notate le raffinatissime cravatte, “e certamente disapprovava – segnalò Michele Serra – la trasandatezza scapigliata di noi giovani giornalisti dell’Unità appena sortiti dal Sessantotto, detestava la mancanza di misura, l’ostentazione di sé, la sbracatezza”.
palmiro togliatti il figlio aldo daLaStampa
Poi venne D’Alema – prima dell’Ikarus, venne, e delle vigne del podere La Madeleine (a far eco a una vecchia canzone di Venditti: là dove Marx e Proust si davano la mano). Con abiti che desolavano l’occhio e la sua struttura fisica. Dello smaltimento degli antichi vestimenti, nonché del novello approvvigionamento, fu incaricato il compagno Claudio Velardi, che aveva assistito al dramma dalemiano di un passaggio del segretario del Pds presso la pregevole bottega Cenci, “è riuscito a comprarsi l’unica giacca brutta che c’era”.
Alessandro Natta
Fu chiamata in soccorso, per riconosciuta competenza, pure la pubblicitaria Anna Maria Testa (“Nuovo? No, lavato con Perlana!”), e procedette Velardi con il dovuto ammaestramento presso il valoroso sarto napoletano Gino Cimmino: “Quando venne da me gli consigliai il blu e il grigio e da allora non ha più adottato altri colori”. Napoletane le cravatte, napoletana la camiciaia – pochi mesi, e D’Alema, stilisticamente parlando, fu un babà. “Cerco di non portare mai colori troppi brillanti che farebbero risaltare il mio incarnato cadaverico” (pur sollevato dal sole di Gallipoli), spiegò il diretto interessato ormai ben instradato. Ma siccome tutto in camicia bianca si è risolto, da anni le camicie avevano già superato nello stile della sinistra, braghe e paltò.
Fu Veltroni, arrivato dopo D’Alema, a dar vita all’epica di quelle button-down. Oliviero Toscani raccontò al Corriere della Sera una sua telefonata. “Ho scoperto le camicie Brooks Brothers!”, confidò Walter. E quell’altro: “Se è per quello io le porto da trent’anni!”. Ma sta il periglio sempre in agguato, sul pacifico capo d’abbigliamento: nel 2007, in una sfilata presso l’atelier Gattinoni, viene presentata quella che i giornali chiamarono “la camicia-Walter”.
Claudio Velardi
Dalla dettagliata cronaca di Repubblica: “Ecco incedere sulla passerella un’indossatrice con un’accollata casacca di lamé d’oro: sul petto è ricamato, stilizzato con le paillettes, il viso di Veltroni. Sul dorso la modella ha lo slogan di don Milani che il candidato del Pd usò al congresso dei Ds nel 2000 a Torino: ‘I care’…”. Fu spiegato: “Con questa tenuta da lavoro abbiamo voluto rendere un doppio omaggio: all’arte della politica e a Veltroni”.
Mica facile, si narrò, conseguire l’artistico risultato finale: “Non è stato semplicissimo ritrarre il volto del leader politico con minuscole perline color canna di fucile su campo d’oro: la ricamatrice avrebbe avuto un intoppo nel raffigurare gli occhiali, e a poche ore dalla sfilata la blusa non era ancora pronta” (sempre dalle cronache di Repubblica). Fortunatamente lo fu.
Mai, però, vero peccato, fu visto Walter con indosso la camicia a lui dedicata – certo ben altra assoluta figura rispetto a quella giovanile, a quadretti, con cui figura vicino a un perplesso Pasolini (e ad Adornato, anch’esso di fantastici quadrettoni ornato). Aedo della camicia pure il compagno Bersani, che apposita campagna – dove leggiadramente scamiciato appariva – fu da lui organizzata: “Rimbocchiamoci le maniche”, e le maniche bersaniane, per l’appunto, sui muri d’Italia apparivano rimboccate. Si ricomponga, dissero le urne crudeli. Così Walter indicò la strada, e l’appassionato Pier Luigi tracciò il solco – scamiciati e smanicati, compagni!
Nilde Iotti
Poi l’aratro di Renzi sopra passò, fu rottamazione impietosa di asole e bottoni e popeline, aghi e fili. E già che c’era, quello si prese pure i tortellini, insieme a tutti i soci del socialismo. Proprio uno nato con la camicia, Matteo. Piuttosto e meglio: con culo e camicia.